In rete: http://www.elegio.it/mc2/lorentz-mia-2008.html
Vedi anche: http://www.elegio.it/doc/azione-a-distanza.html

Data: giugno 2008: Questo è un documentino che ho scritto, se ricordo, nel 2005. Nel frattempo ho cambiato un po' i miei gusti sulle convenzioni da adottare e l'ultima parte ... non la trovo più così centrata come un tempo. Tra l'altro cito il Runge Kutta di Nystrom piuttosto di altre varianti di Runge Kutta che consentono il controllo del passo di integrazione.
Comunque, per certi aspetti, questo documento mi sembra ancora valido come promemoria...


Trasformazione di Lorentz e considerazioni varie

Trascrivo subito, poiché tendo a dimenticarle e non tutti gli autori le adottano nella stessa forma, le convenzioni seguite per rappresentare vettori, ed in particolare il vettore della quadrivelocità relativistica.
  • I pedici si riferiscono alle componente covarianti, gli indici in alto si riferiscono alle componenti controvarianti.

  • La componente temporale non cambia segno passando dalla notazione covariante a quella controvariante.

  • Le tre componenti spaziali cambiano segno passando dalla notazione covariante a quella controvariante.

  • Di norma le coordinate spazio temporali si intendono espresse in forma controvariante mentre il quadrigradiente viene espresso in forma covariante perché il differenziale totale di un invariante deve essere a sua volta un invariante ed esso deve essere inteso come il prodotto scalare del gradiente dell'invariante per un vettore di spostamenti infinitesimi. Ma se le coordinate sono controvarianti anche gli spostamenti lo sono e siccome il differenziale totale è una sommatoria di termini positivi necessariamente le componenti del gradiene debbono essere grandezze covarianti perchè altrimenti la componente temporale per la variazione infinitesima temporale andrebbe aggiunta con il segno positivo ma ogni componente spaziale per la variazione infinitesima spaziale andrebbe aggiunta cambiata di segno. Poiché viceversa, nell'espressione del differenziale totale tutti i segni sono positivi se ne deduce che le componenti del gradiente sono grandezze covarianti.

  • Il prodotto di due tensori con indici ripetuti ma di natura diversa ossia prima controvarianti e poi covarianti o viceversa, indica prodotto scalare rispetto ai suddetti indici. Nel caso di un generico vettore vi in forma covariante e vi in forma controvariante, il simbolo vi·vi = vi·vi indica la sommatoria v0·v0 + v1·v1 + v2·v2 + v3·v3.
Sia ui una qualsiasi quadrivelocità espressa in forma covariante e analogamente sia ui la stessa quadrivelocità espressa in forma controvariante.
La forma più spontanea di esprimere una quadrivelocità è quella controvariante poichè ogni elemento della quadrivelocità va calcolato come rapporto tra una variazione infinitesima di una coordinata e la corrispondente variazione del tempo proprio. Ma il tempo proprio è un invariante mentre la differenza tra due coordinate controvarianti è una grandezza controvariante per cui.... anche la quadrivelocità è espressa spontaneamente in forma controvariante.

Uso la convenzione di usare per indici o pedici lettere greche per segnalare che la componente è di tipo solo spaziale ossia gli indici greci vanno da 1 a 3 mentre quelli latini vanno da 0 a 3 essendo 0 l'indice o il pedice della componente temporale.

Tenuto conto di tutte le suddette convenzioni posso scrivere:

u0 = u0
uα = − uα ; α = 1, 2, 3;
ui·ui = 1

La terza di queste relazioni ribadisce il fatto che ogni quadrivelocità è un versore ossia un vettore con norma 1 e dunque il vettore quadri_accelerazioni deve obbligatoriamente essere sempre ortogonale al versore quadrivelocità.

Dato che ogni quadrivelocità è un versore essa è dipendente da tre e non da quattro parametri arbitrari e risulta comodo usare come parametri arbitrari di una generica quadrivelocità le sole componenti spaziali; la componente temporale diventa dunque una variabile dipendente, calcolata sfruttando il fatto che la norma deve essere unitaria.
Sia dunque:

u0 = ( 1 + (u1)2 + (u2)2 + (u3)2 )1/2

Sfruttando la compattezza della convenzione degli indici ripetuti si può scrivere:

u0 = u0 = ( 1 − uα·uα )1/2

ovvero, per non usare il segno meno introdotto solo per ristabilite la positività della sommatoria, si può scrivere:

u0 = u0 = ( 1 + | uα·uα | )1/2

Si comprende facilmente che u0 varia tra 1 (particella ferma) e ∞ (particella in moto alla velocità della luce).
Si definisca la quantità ψ nel seguente modo:

ψ = 1/( 1 + u0) = ( 1 + ( 1 + | uα·uα | )1/2 )−1

I valori che ψ può assumere sono compresi nel seguente intervallo:

0 < ψ( uα ) 1/2

Il valore di ψ descresce al crescere della velocità della particella.
La trasformazione di Lorentz che fa in modo che, nel nuovo sistema di riferimento la particella che nel vecchio sistema ha quadrivelocità ui, risulti ferma, è la seguente:

L(uα)=





ψ−1 −1 −u1 −u2 −u3




−u1 1 + ψ·u1·u1 ψ·u1·u2 ψ·u1·u3
−u2 ψ·u2·u1 1 + ψ·u2·u2 ψ·u2·u3
−u3 ψ·u3·u1 ψ·u3·u2 1 + ψ·u3·u3

Da notare che ψ−1−1 coincide con u0 ma si è usata la prima espressione per avere una matrice con un solo parametro dipendente ossia ψ = ψ( uα ).
La trasformazione inversa che consente di attribuire ad una particella ferma la quadrivelocità ui è :

L(uα)−1=





ψ−1 −1 u1 u2 u3




u1 1 + ψ·u1·u1 ψ·u1·u2 ψ·u1·u3
u2 ψ·u2·u1 1 + ψ·u2·u2 ψ·u2·u3
u3 ψ·u3·u1 ψ·u3·u2 1 + ψ·u3·u3

Va sottolineato il fatto che le quadrivelocità sono grandezze adimensionali dato che sono rapporti di quantità infinitesime dello stesso tipo.
L'invariante della metrica pseudoeuclidea è infatti:

ds2 = c2 · dt2 −dx2 −dy2 −dz2

[ essendo, per definizione nel SI (== Sistema Internazionale), c = 299792458 m/s , c2 = 89.875517873681764·1015 ] da cui si ricava :

u0 = c · dt / ds
u1 = dx / ds
u2 = dy / ds
u3 = dz / ds

tutti rapporti tra grandezze dimensionalmente di tipo lunghezza. La variabile s è detta lunghezza propria e si misura, nel Sistema Internazionale, in metri. Dal punto di vista intuitivo è forse preferibile usare il tempo proprio, misurato, in secondi, da un orologio che si muove solidarmente con la particella.     La relazione tra tempo proprio e lunghezza propria è:

τ = s / c

e dunque la metrica pseudoeuclidea diventa:

2 = dt2 − ( dx2 + dy2 + dz2 ) / c2

ma questo non cambia la definizione delle componenti adimensionali del quadrivettore delle velocità che diventa ovviamente:

u0 = dt / dτ
u1 = dx / ( c · dτ )
u2 = dy / ( c · dτ )
u3 = dz / ( c · dτ )

Dalle quadrivelocità si ottengono le tradizionali velocità (velocità percepibile) con la formula:

dx/dt   = x` =   c · u1 / u0
dy/dt   = y` =   c · u2 / u0
dz/dt   = z` =   c · u3 / u0

Naturalmente le velocità percepibili non sono componenti di un vettore ossia non obbediscono alla legge di trasformazione dei vettori quando si passa da un sistema ad un altro mutuamente in moto inerziale; le velocità percepibili vanno sempre desunte dal versore della quadrivelocità usando la precedente formula.
Definito v come:

v = ( x` 2 + y` 2 + z` 2 )1/2
v1 = x` = vx ;   v2 = y` = vy ;   v3 = z` = vz

si può esprimere u0 in funzione delle velocità percepibili ossia:

u0 = c · ( c2v2 ) − 1/2
[1]
Analogamente, per le tre componenti spaziali uα si deduce la semplice formula:

uα = vα · ( c2v2 ) − 1/2
[1α]
Le accelerazioni percepibili sono notoriamente le derivate rispetto al tempo delle velocità percepibili ovvero le derivate seconde rispetto al tempo delle coordinate spaziali ossia:

x`` = dx`/dt = d2x/ (dt)2
y`` = dy`/dt = d2y/ (dt)2
z`` = dz`/dt = d2z/ (dt)2

Viceversa la quadri_accelerazione ( un vero vettore quadridimensionale) è la derivata prime della quadrivelocità rispetto allo spazio proprio ossia è, dimensionalmente, l'inverso di una lunghezza. Si definisca la quadri_accelerazione con i seguenti simboli:

wi = d ui / ds = d ui / d ( c ·τ )
[2]
Si noti che questa definizione di quadri_accelerazione viene qui adottata per conservare la coerenza di simboli del Landau ma, dovendo scegliere liberamente, avrei preferito definire la quadri_accelerazione come la derivata rispetto al tempo proprio per avere una grandezza dimensionalmente inversa di un tempo ossia una frequenza.
Dal fatto che una quadrivelocità è sempre un vettore unitario, derivando rispetto alla distanza propria l'espressione del prodotto scalare della quadrivelocità per se stessa si ricava la fondamentale relazione:

wi·ui = wi·ui = 0
[3]
In altre parole, anche la quadri_accelerazione (analogamente a quanto vale per la quadrivelocità) è funzione solo di tre gradi di libertà e non di quattro poiché deve essere sempre rispettato il vincolo di ortogonalità tra quadri_accelerazione e versore della quadrivelocità.
Si vuole ora esprimere l' accelerazione percepibile aα in funzione della velocità percepibile vα e delle componenti della quadri_accelerazione wi.
Effettuiamo diligentemente i passaggi anche se elementari:

aα = (d/dt) · vα = (d/dt) · ( c · uα / u0 )

ossia, volendo differenziare rispetto al tempo proprio:

(d/dt) · vα = (ds/dt) · (d/ds) · ( c · uα / u0 )

Ma, come si è visto:

ds/dt = ( c2v2 )1/2 = c / u0

viceversa, differenziando per parti:

(d/ds) · ( c · uα / u0 )




= c · ( d uα/ ds ) / u0 − c · uα · ( d u0/ ds ) / (u0)2
= c · wα / u0 − c · uα · w0 / (u0)2
= ( c / u0 ) · ( wα − ( c · uα / u0 ) · w0 / c )
= ( c / u0 ) · ( wα − vα · w0 / c )

e dunque in conclusione:

aα = (d/dt) · vα = ( c2v2 ) · ( wα − vα · w0 / c )
[4]
Questa formula svolge un ruolo fondamentale dal punto di vista del calcolo numerico del moto di un insieme di punti perché l'espressione della quadri_accelerazione in funzione delle forze agenti sulla singola particella è, come si vedrà, spesso molto semplice e dunque anche in relatività ristretta è facilmente applicabile un qualsiasi classico algoritmo di integrazione nel tempo del tipo, ad esempio, dell'algoritmo di Runge Kutta Nystrom (formule 25.5.20 e 25.5.22: M. Abramowitz and I.A. Stegun, Eds., Handbook of Mathematical Functions, Appl. Math. Ser. 55 (National Bureau of Standards, Washington, DC, 1964) Chapter 25).

Giunti a questo punto è opportuno chiedersi come fare a definire dei campi di forze capaci di agire sulle singole particelle. Il prototipo di campo solitamente considerato in ambito relativistico è il campo elettromagnetico che, sperimentalmente, risulta in grado di impremere alle particelle (in genere elementari, elettroni, positroni, ioni dei vari elementi) accelerazioni tali da rendere la velocità della particella non trascurabile rispetto a quella limite data da c.
Qui però si vorrebbe tentare una generalizzazione del campo di forze tale da consentire la descrizione di particelle legate ma che pure si muovono a velocità non trascurabili (almeno circa un millesimo di c ossia almeno 300 km/s ossia circa dieci volte la velocità di rivoluzione della Terra attorno al Sole)
Simili velocità elevatissime si registrano normalmente solo per gli elettroni più legati ai nuclei di elementi pesanti, tipo l'oro o il piombo oppure all'interno dei nuclei atomici dove i quark, se non fosse indispensabile usare modelli basati sulla meccanica quantistica, sarebbero certo descrivibili come particelle superveloci, costrette ad accelerazioni mostruose e con velocità tali da dare una grossa massa a riposo ai nuclei pur possedendo, loro stessi, in quanto particelle, una massa piuttosto modesta.
Il punto centrale è dato dal fatto che, qualunque sia la forza che agisce sulla particella essa deve rispettare il vincolo specificato in [3]. Questo però vuol dire che la forza non può essere indipendentente dalla quadrivelocità altrimenti esisterebbero dei valori della quadrivelocità per i quali non c'è ortogonalità tra forza e quadrivelocità ossia valori per i quali il vincolo [3] viene violato, il che è inammissibile. Il più elementare modello per creare un vettore dipendente dalla quadrivelocità che si orienti in modo che sia sempre ortogonale ad essa è quello di immaginare che il vettore forza sia dato dal prodotto scalare di un tensore del secondo ordine (una classica matrice di ordine quattro) per il versore velocità.
In effetti ( ma guarda che combinazione ) è proprio quello che si verifica quando un campo elettromagnetico agisce su una particella: è famigerata come forza di Lorentz e, scritta limitandoci alla meccanica classica, è una forza alquanto complicata, dipendente sia dal campo elettrico che dal campo magnetico. Gli studenti universitari delle facoltà scientifiche ci dedicano un duro esame non superabile senza impegnarsi.
La forza elettrica, bene o male, risulta intellettualmente digeribile ma quella puramente magnetica dipende dalla velocità percepibile posseduta dalla particella carica e questo provoca turbe mentali agli studenti meno cerebralmente robusti di Fisica II, costretti a cercare di capire, descrivere e dominare numericamente questo genere di interazioni poco intuitive.
Se si descrive l'interazione campo-particella in meccanica relativistica si vede che la forza di Lorentz è data dal prodotto del tensore del campo elettromagnetico per la quadrivelocità della particella. La particella, pur dotata di carica, in genere contribuisce poco al campo elettromagnetico e del resto, nel moto sente il campo elettromagnetico creato da tutte le altre. Dunque il campo elettromagnetico, nel punto in cui sta la particella, è visto come una costante dalla particella ossia la matrice del tensore è una costante.
Come può essere garantita l'ortogonalità tra forza e quadrivelocità ? Dal puro fatto che il tensore del campo elettromagnetico (il Landau lo indica con Fi,k ) è un tensore antisimmetrico ( perché Fi,k = − Fk,i ) e qualunque vettore, qualunque sia il numero di dimensioni considerato, quando è moltiplicato per una matrice antisimmetrica dà un vettore ortogonale al vettore stesso.

A questo punto, se siamo in grado di definire nello spazio una coppia di campi vettoriali ossia di definire in ogni punto dello spazio due quadrivettori che possiamo indicare come Ai e Bi ottenuti non importa come ( magari come funzioni del gradiente di un qualche invariante ossia di una quantità indipendente dal moto di un qualsiasi osservatore inerziale ) siamo in grado di costruirci un tensore emisimmetrico ponendo Ti,k = Ai·Bk − Ak·Bi ed abbiamo la certezza di poter usare tale tensore per generare una forza valida anche senza aver dovuto definire delle equazioni differenziali per definire il campo.
Il fatto che si sia individuato questo particolare metodo, sicuro per definire campi ampiamente arbitrari ma capaci di produrre forze valide non è però sufficiente per soddisfare le nostre esigenze di realizzare modelli validi sull'intero intervallo di velocità, da c fino alla velocità nulla ossia fino alla statica: modelli tali da raccordare in modo semplice regimi di moto ad altissima velocità con regimi di moto lento o nullo.

Proviamo ora a chiederci se siamo in grado di scambiare il ruolo tra tensore doppio e vettore dal prodotto dei quali si vuole ottenere una forza ammissibile. Nel promo caso, costruito cercando di seguire la logica applicata per definire la forza di Lorentz, si è usato un tensore indipendente dallo stato di moto della particella moltiplicato per un vettore (la quadrivelocità) che esprime proprio tale stato di moto. In questo secondo caso immaginiamo invece che sia il vettore a non dipendere dallo stato di moto della particella ed analizziamo quali devono essere le proprietà del tensore.
In breve: basta che il tensore abbia come autovettore il vettore della quadrivelocità e che l'autovalore corrispondente sia zero. Ossia, posto che sia definito il tensore Ti,k che goda della seguente proprietà:

Ti,k·uk = λ uj

e posto che si abbia un vettore indipendente da uj e arbitrario bk, allora il vettore Ti,k·bk risulta ortogonale a ui se λ = 0.
Cercando la massima semplicità, indicato con gi,k il tensore che definisce la metrica ( ossia g0,0=1, gα,α= −1 e 0 in tutti gli altri casi ), un tensore che soddisfa questi requisiti è il seguente:

Ri,k = ui · uk − gi,k

Il tensore della metrica scritto in forma mista coincide con la matrice identità ossia gik = δik ossia ha tutte le componenti diagonali unitarie e tutte le nondiagonali nulle.
È immediato constatare che Ri,k·uk = 0 e dunque di = Ri,k·bk è sempre ortogonale a ui e dunque è una forza ammissibile.
Qualche ovvia considerazione ulteriore su Ri,k (scritto in forma covariante) ovvero Ri,k scritto in forma controvariante: è rappresentato da una matrice simmetrica.
La simmetria va persa quando lo si utilizza nella forma mista che è però quella più comoda nella pratica. Visto il ruolo fondamentale di tale tensore, è opportuno scriverlo esplicitamente nella sua forma mista ma con elementi in funzione delle sole componenti controvarianti di ui.

Rik=





1 − u0·u0 u0·u1 u0·u2 u0·u3




−u1·u0 1 + u1·u1 u1·u2 u1·u3
−u2·u0 u2·u1 1 + u2·u2 u2·u3
−u3·u0 u3·u1 u3·u2 1 + u3·u3

Anche se ovvio, notiamo ancora che :

ui = [ u0 , −u1 , −u2 , −u3 ]

per cui si constata che ui·Rik = 0 = Rik·uk come voluto.
Supponiamo ora, come vincolo aggiuntivo, che bk·bk = 0. Dato che stiamo usando una norma pseudoeuclidea questo vincolo non impone che il vettore bk abbia tutte e quattro le componenti identicamente nulle ma solo che il quadrato della componente temporale sia uguale alla somma dei quadrati delle componenti spaziali ossia:

b0·b0 = bα·bα
[5]
Vista l'importanza di questa formula scriviamola per esteso:

bk = [ ( (b1)2 + (b2)2 + (b3)2 )1/2, b1 , b2 , b3 ]
bk = [ ( (b1)2 + (b2)2 + (b3)2 )1/2, −b1 , −b2 , −b3 ]

Da cui è evidente che bk·bk = 0.
In altre parole bk è un raggio di luce ossia è la traiettoria di un fotone emesso da un punto dello spazio ed assorbito da un altro. Le componenti di bk sono la differenza tra la posizione dell'evento di emissione e quello di assorbimento.
Per capire il significato fisico dell'invariante di·di basta porsi in un sistema di riferimento appropriato. Se ci mettiamo nel sistema di riferimento della particella che riceve il raggio di luce notiamo che in esso, dato che la particella appare ferma, le componenti spaziali della quadrivelocità sono nulle mentre vale 1 quella temporale. Pertanto il valore di di·di coincide col valore di −b0·b0 purchè misurato in questo solo sistema.
Notevolissima, per la sua semplicità, anche l'espressione delle componenti di Rik ·bk quando ci si pone nel sistema della particella che riceve il raggio di luce: d k = [ 0, b1, b2, b3] e dunque d k = [ 0, −b1, −b2, −b3].
In sostanza −di·di rappresenta il quadrato del tempo necessario perchè un raggio di luce faccia il viaggio di andata o ritorno dalla particella che lo emette e che poi lo riassorbe, alla particella che lo riflette indietro. Dunque è il quadrato della distanza della fisica classica tra due punti misurata in un sistema fermo o in moto molto lento rispetto al punto emittente-ricevente.

In conclusione quanto qui illustrato fornisce gli elementi base per realizzare modelli costituiti da vincoli di natura non necessariamente elettromagnetica ma rigorosi in ambito relativistico.
L'integrazione nel tempo di tali modelli potrà essere fatta operando nel sistema di riferimento di uno qualsiasi degli osservatori che segue l'evoluzione del sistema di punti. I risultati osservati da un osservatore, trasformati, tramite trasformazioni di Lorentz, in dati validi per un secondo osservatore inerziale ma in moto rispetto al primo, coincideranno esattamente con i calcoli fatti direttamente nel sistema del secondo osservatore inerziale.

Il calcolo relativistico delle accelerazioni percepibili sarà diverso rispetto a quello classico per la necessità di individuare, per ogni particella soggetta alla forza di un'altra, l'istante spazio-temporale in cui la particella causa ha generato l' effetto sulla particella che subisce la forza. Dunque non c'è più uguaglianza tra azione e reazione poichè la particella che subisce la forza non può mai agire sulle coordinate della particella che è la fonte, la causa della forza.

Una volta trovato il punto che causa la forza e che dunque ha distanza pseudoeuclidea nulla dal punto che subisce la forza ( dunque tale per cui vale la [5] ), si applica il modello di interazione prescelto e con ciò si determina il contributo alla quadri_accelerazione della particella subente da parte della particella causante.

Poichè l'algoritmo di integrazione temporale opera sulle accelerazioni e velocità percepibili, sarà necessario dedurre da esse il vettore della quadrivelocità necessario per calcolare i vari contributi di quadri_accelerazione.
A questo scopo verranno usate le espressioni [1] ed [1α].

Seconda parte


Prima di proseguire introduciamo delle grandezze che possano piacere ad un ingegnere abituato a fare controlli dimensionali delle sue formule e ad usare il SI (Sistema Internazionale: ingegnere ossia una persona illuminata che sa usare metri, kilogrammi e secondi ).
Le novità introdotte dalla teoria della Relatività sono, in pratica due ossia la quadrivelocità che è sempre un versore, e la quadri_accelerazione che deve essere sempre ortogonale alla quadrivelocità. Per non confondere le idee a chi è abituato alla simbologia del Landau - Lifšits, la quadrivelocità è stata indicata col simbolo "u" e la quadri_accelerazione col simbolo "w". Disgraziatamente però queste due grandezze sono, dimensionalmente parlando, un numero puro, adimensionale la quadrivelocità e l'inverso di una lunghezza la quadri_accelerazione: NO BUONO!
Un ingegnere, quando parla di velocità, sia quadri o no, pensa a dei metri diviso dei secondi e quando parla di accelerazione, sia quadri o no, pensa all'accelerazione di gravità, la madre terrestre di tutte le accelerazioni e dunque pensa a dei metri diviso secondi al quadrato.
Non confondiamo le idee agli ingegneri che sono le uniche persone serie che fanno i conti e cerchiamo delle grandezze che abbiano le dimensioni che gli ingegneri si aspettano di trovare. Parliamo dunque di relvelocità e di relaccelerazioni definite in questo modo:

ùi = c · ui
ài = c2 · wi

Come si vede, la relvelocità ùi, pur restando rigorosamente un quadrivettore, ha le solite dimensioni di una velocità mentre la relaccelerazione, anch'essa rigorosamente un quadrivettore, è dimensionalmente omogenea alla ben nota accelerazione di gravità.

Il secondo passo per addomesticare le formule relativistiche è quello di nascondere il più possibile il concetto di covarianza e controvarianza e dunque sopprimere la necessità di avere la componente 0 nelle formule. Basta dunque usare i pedici x,y e z ed esprimere appropriatamente la componente ù0 e à0 in funzione delle altre. Si sfruttano dunque le seguenti relazioni sempre valide:

ù0 = ù0 = ( c2 + (ù1)2 + (ù2)2 + (ù3)2 )1/2
à0 · ù0 = à1 · ù1 + à2 · ù2 + à3 · ù3

ovvero, posto:

ù1 = ùx ;   ù2 = ùy ;   ù3 = ùz
à1 = àx ;   à2 = ày ;   à3 = àz

si trova, con qualche passaggio:

ùx = c · vx / ( c2vv ) 1/2
ùy = c · vy / ( c2vv ) 1/2
ùz = c · vz / ( c2vv ) 1/2

e scriviamo, isolata, la componente zer_esima che fa caso a sè, la meno... intuitiva:

ù0 = c2 / ( c2vv ) 1/2
[1]
Le prime tre equazioni, con la notazione vettoriale tradizionale ( v = [ vx , vy , vz ]; ù = [ ùx , ùy , ùz ]; a = [ ax , ay , az ]; à = [ àx , ày , àz ] ) diventano:

ù = c · v / ( c2vv ) 1/2
[2]
Dalle precedenti consegue questa relazione generale di importante rilievo pratico:

à0 = àv / c
[3]
Quest' ultima espressione ci permette infatti di esprimere l'accelerazione percepibile a in funzione della velocità percepibile v e del vettore formato dalle tre sole componenti spaziali della relaccelerazione à. Si ha:

a = ( 1 − vv / c2 ) · ( àv · ( àv ) / c2 )
[4]
Sfruttando inoltre il fatto che la relaccelerazione è un vero quadrivettore possiamo dedurre il fatto che il prodotto scalare della relaccelerazione per se stessa ovvero la norma pseudoeuclidea della relaccelerazione è un invariante. Questo porta a dedurre questa utile e sempre vera relazione:

àà − ( àv )2 / c2 = invariante
[5]
Il fatto che la precedente espressione debba valere in qualsiasi sistema di riferimento ci permette di scegliere il sistema di riferimento più adatto per semplificare i calcoli. Si stimerà dunque, appena sia possibile, la relaccelerazione nel sistema di riferimento in moto alla velocità stessa della particella perché, in tale sistema, il calcolo della relaccelerazione coincide in pratica con quello della accelerazione apparente. La norma dell'accelerazione nel sistema in cui la particella è ferma consente quindi di valutare il valore dell'invariante nella espressione in cui si usa l'effettivo sistema di riferimento nel quale la particella ha velocità percepibile v.

A questo punto abbiamo tutti gli elementi per trattare un sistema di particelle relativistico con le stesse metodologie, gli stessi algoritmi a cui siamo abituati per trattare un sistema di particelle in modo classico. In altre parole possiamo integrare nel tempo le equazioni del moto tramite un affidabile Runge Kutta Nystrom che, per funzionare, ci chiede di quantizzare l'accelerazione percepibile a per desumere da essa la nuova velocità percepibile v e la nuova posizione a valle del passo temporale nel sistema inerziale che abbiamo scelto.
Calcoleremo a tramite l'espressione [4] ossia calcolando la relaccelerazione à che dipende in modo semplice dai campi sentiti dalla particella. La quadri_accelerazione deducibile dalla relaccelerazione usando la [3] deve essere ortogonale alla quadrivelocità e si ottiene tramite una espressione, dipendente dal tipo di interazione considerato, che è funzione sia dei campi presenti sia della quadrivelocità stessa.

Esempio: moto uniformemente accelerato

La particella, nel sistema in cui è ferma ossia nel sistema proprio, sente una accelerazione costante di α   m·s−2 che coincide con l'accelerazione della meccanica classica valida su oggetti in moto a velocità piccola rispetto a quella della luce, ma naturalmente l'accelerazione percepibile da un osservatore esterno, quando l'accelerazione costante agisce per lungo tempo, è ben diversa. Se prendiamo come direzione quella dell'accelerazione, il vettore accelerazione percepibile e velocità percepibile hanno una unica componente che diremo à e v per cui la relazione [5] ci fornisce la seguente relazione:

à2 − à2 · v2 / c2 = α2

ossia à, nel sistema dell'osservatore, ha la seguente dipendenza dalla velocità percepibile:

à = α/ ( 1 − v2 / c2 )1/2

Consideriamo ora la [4] che, nel caso monodimensionale diventa:

a = ( 1 − v2 / c2 ) · ( à − v · ( à · v ) / c2 )

ossia, procedendo a passi logici mooolto lenti:

a = ( 1 − v2 / c2 )2 · à

ossia sostituendo ad à la sua espressione in funzione di α e di v:

a = α · ( 1 − v2 / c2 )3/2

Ma ovviamente l'accelerazione percepibile è la derivata rispetto al tempo della velocità percepibile ossia a = dv /dt e dunque, integrando per parti abbiamo:

( 1 − v2 / c2 )−3/2 dv = α dt

Ossia imponendo che a t=0 risulti v=0:

v / ( 1 − v2 / c2 )1/2 = α · t

Esprimendo v in funzione di t, dalla precedente si ottiene:

v = dx / dt = α · t / ( 1 + α 2 · t2 / c2 )1/2

da cui si ottiene l'ascissa x in funzione del tempo t nell'ipotesi che la particella, all'istante iniziale, si trovi nell'origine:

x = ( ( 1 + α 2 · t2 / c2 )1/2 − 1 ) · c2 / α

e la riprova che tutto quadra si ha dal fatto che, per t piccoli, x = α · t2 / 2 come prevede la meccanica classica.
Notare che questo risultato viene ottenuto anche dal Landau - Lifšits al termine del capitolo I del libro "Teoria dei campi" con considerazioni specifiche riguardanti il problema particolare monodimensionale mentre qui viene dedotto dalle formule del tutto generali che valgono in tre dimensioni e che consentono l'applicazione dell'algoritmo standard del Runge Kutta Nystrom.

La distanza invariante

Nella relatività la forza non è proporzionale alla accelerazione a ma alla relaccelerazione à e dunque, essendo la relaccelerazione legata alla quadrivelocità dalla condizione di ortogonalità, anche la forza deve risultare ortogonale alla quadrivelocità. Da questa considerazione deriva il fatto che obbligatoriamente la forza dipende da v anche se questa dipendenza risulta di solito mascherata dalla piccolezza di vv rispetto a c2.
Come si è già detto, la forza può essere espressa dal prodotto di una matrice emisimmetrica per il vettore della quadrivelocità oppure da una qualsiasi matrice singolare che abbia la quadrivelocità come autovettore associato all'autovalore nullo.
Si vuole ora scrivere l'invariante che esprime la distanza del punto che subisce la forza dal punto sorgente che si trova a distanza pseudoeuclidea nulla dal punto subente. Assumiamo come istante t=0 quello in cui il punto subente sta nell'origine. Per indicare le coordinate del punto sorgente usiamo caratteri sottolineati e dunque il punto sorgente è un evento caratterizzato dalle seguenti coordinate:

S = [ c · t , r x + v x· t , r y + v y· t , r z + v z· t ]

In sostanza dunque ipotizziamo che r = [ r x , r y , r z ] sia la posizione del punto sorgente a t = 0 e che la velocità del punto sorgente che si muove di moto rettilineo uniforme sia v = [ v x , v y , v z ].
All'istante t (positivo o negativo) la distanza euclidea che separa il punto sorgente dall'origine è:

ρ = ( ( r x + v x· t )2 + ( r y + v y· t )2 + ( r z + v z· t )2 )1/2

ma un fotone che dunque si muove alla velocità c, percorre tale distanza in τ = ρ/c e quindi, da questo fatto si può risalire al tempo τ ossia:

τ = ( rv − ( rv + ( rr )·( c2vv ) )1/2 ) / ( c2vv )

Evidentemente il valore di τ è negativo e sempre reale poiché il termine sotto radice quadrata è sempre positivo a patto che la sorgente si muova con velocità inferiore a quella della luce.
Definiamo pertanto il quadrivettore bi con le seguenti espressioni:

b0 = c · τ
b1 = r x + v x· τ
b2 = r y + v y· τ
b3 = r z + v z· τ

otteniamo finalmente l'espressione della distanza invariante con la formula:

d = bi · ùi = b0 · ù0 − b1 · ù1 − b2 · ù2 − b3 · ù3

La disponibilità di una grandezza invariante è fondamentale per poter costruire modelli di interazioni locali. Qualsiasi forza ammissibile ovvero ortogonale alla relvelocità può essere usata per fornire i versori di una forza locale dato che la forza effettiva dell'interazione può essere definita come il prodotto di un versore ammissibile per una funzione appropriata della distanza invariante.
Tra gli infiniti esempi di funzioni adatte a questo scopo si considerino le seguenti due:

buca o altopiano di potenziale : η(d) = μ2 − d2 − | μ2 − d2 |
atomo attrattivo o repulsivo : ζ(d) = μ2 − d2 + | μ2 − d2 |

Nel caso della buca la funzione a grande distanza decresce indefinitamente mentre per distanza piccola, inferiore a μ risulta rigorosamente nulla; viceversa nel caso di atomo attrattivo o repulsivo la funzione risulta esattamente nulla a d superiore a μ mentre l'interazione ha luogo solo per valori di d sufficientemente piccoli.