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TITOLO: | La Divina Commedia | ||||||||||||
AUTORE: | Alighieri, Dante | ||||||||||||
TRADUTTORE: | |||||||||||||
CURATORE: | Petrocchi, Giorgio | ||||||||||||
NOTE: | |||||||||||||
DIRITTI D'AUTORE: | no | ||||||||||||
LICENZA: | Questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/ | ||||||||||||
TRATTO DA: | "Le opere di Dante Alighieri" Edizione Nazionale a cura della Società Dantesca Italiana. Comprende: "La Commedia secondo l'antica vulgata" di Dante Alighieri, a cura di Giorgio Petrocchi, 3 volumi. A. Mondadori Editore. Milano, 1966-67. |
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CODICE ISBN: | informazione non disponibile | ||||||||||||
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: | 11 luglio 1997 | ||||||||||||
2a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: | 2 dicembre 1999 | ||||||||||||
3a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: | 20 giugno 2005 | ||||||||||||
INDICE DI AFFIDABILITÀ: |
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ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO: | Leonardo Costa Coscarelli, lcosta@planetarium.com.br Vittorio Dell'Aiuto William I. Johnston, wij@world.std.com |
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REVISIONE: | Marco Calvo, http://www.marcocalvo.it/ Marina De Stasio, Marina_De_Stasio@rcm.inet.it Claudio Paganelli, paganelli@rcm.inet.it Catia Righi, catia.righi@risorsei.it |
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PUBBLICATO DA: | Alberto Barberi, barberi.a@e-text.it | ||||||||||||
HTML: | Marco Calvo, http://www.marcocalvo.it/ | ||||||||||||
InfernoInferno: Canto I (indice)[Incomincia la Comedia di Dante Alleghieri di Fiorenza, ne la quale tratta de le pene e punimenti de' vizi e de' meriti e premi de le virtù. Comincia il canto primo de la prima parte la quale si chiama Inferno, nel qual l'auttore fa proemio a tutta l'opera.] Nel mezzo del cammin di nostra vita Ahi quanto a dir qual era è cosa dura Tant' è amara che poco è più morte; Io non so ben ridir com' i' v'intrai, Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto, guardai in alto e vidi le sue spalle Allor fu la paura un poco queta, E come quei che con lena affannata, così l'animo mio, ch'ancor fuggiva, Poi ch'èi posato un poco il corpo lasso, Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta, e non mi si partia dinanzi al volto, Temp' era dal principio del mattino, mosse di prima quelle cose belle; l'ora del tempo e la dolce stagione; Questi parea che contra me venisse Ed una lupa, che di tutte brame questa mi porse tanto di gravezza E qual è quei che volontieri acquista, tal mi fece la bestia sanza pace, Mentre ch'i' rovinava in basso loco, Quando vidi costui nel gran diserto, Rispuosemi: «Non omo, omo già fui, Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi, Poeta fui, e cantai di quel giusto Ma tu perché ritorni a tanta noia? «Or se' tu quel Virgilio e quella fonte «O de li altri poeti onore e lume, Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore, Vedi la bestia per cu' io mi volsi; «A te convien tenere altro vïaggio», ché questa bestia, per la qual tu gride, e ha natura sì malvagia e ria, Molti son li animali a cui s'ammoglia, Questi non ciberà terra né peltro, Di quella umile Italia fia salute Questi la caccerà per ogne villa, Ond' io per lo tuo me' penso e discerno ove udirai le disperate strida, e vederai color che son contenti A le quai poi se tu vorrai salire, ché quello imperador che là sù regna, In tutte parti impera e quivi regge; E io a lui: «Poeta, io ti richeggio che tu mi meni là dov' or dicesti, Allor si mosse, e io li tenni dietro. Inferno: Canto II (indice)[Canto secondo de la prima parte ne la quale fa proemio a la prima cantica cioè a la prima parte di questo libro solamente, e in questo canto tratta l'auttore come trovò Virgilio, il quale il fece sicuro del cammino per le tre donne che di lui aveano cura ne la corte del cielo.] Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno m'apparecchiava a sostener la guerra O muse, o alto ingegno, or m'aiutate; Io cominciai: «Poeta che mi guidi, Tu dici che di Silvïo il parente, Però, se l'avversario d'ogne male non pare indegno ad omo d'intelletto; la quale e 'l quale, a voler dir lo vero, Per quest' andata onde li dai tu vanto, Andovvi poi lo Vas d'elezïone, Ma io, perché venirvi? o chi 'l concede? Per che, se del venire io m'abbandono, E qual è quei che disvuol ciò che volle tal mi fec' ïo 'n quella oscura costa, «S'i' ho ben la parola tua intesa», la qual molte fïate l'omo ingombra Da questa tema acciò che tu ti solve, Io era tra color che son sospesi, Lucevan li occhi suoi più che la stella; "O anima cortese mantoana, l'amico mio, e non de la ventura, e temo che non sia già sì smarrito, Or movi, e con la tua parola ornata I' son Beatrice che ti faccio andare; Quando sarò dinanzi al segnor mio, "O donna di virtù sola per cui tanto m'aggrada il tuo comandamento, Ma dimmi la cagion che non ti guardi "Da che tu vuo' saver cotanto a dentro, Temer si dee di sole quelle cose I' son fatta da Dio, sua mercé, tale, Donna è gentil nel ciel che si compiange Questa chiese Lucia in suo dimando Lucia, nimica di ciascun crudele, Disse: - Beatrice, loda di Dio vera, Non odi tu la pieta del suo pianto, Al mondo non fur mai persone ratte venni qua giù del mio beato scanno, Poscia che m'ebbe ragionato questo, E venni a te così com' ella volse: Dunque: che è? perché, perché restai, poscia che tai tre donne benedette Quali fioretti dal notturno gelo tal mi fec' io di mia virtude stanca, «Oh pietosa colei che mi soccorse! Tu m'hai con disiderio il cor disposto Or va, ch'un sol volere è d'ambedue: intrai per lo cammino alto e silvestro. Inferno: Canto III (indice)[Canto terzo, nel quale tratta de la porta e de l'entrata de l'inferno e del fiume d'Acheronte, de la pena di coloro che vissero sanza opere di fama degne, e come il demonio Caron li trae in sua nave e come elli parlò a l'auttore; e tocca qui questo vizio ne la persona di papa Cilestino.] 'Per me si va ne la città dolente, Giustizia mosse il mio alto fattore; Dinanzi a me non fuor cose create Queste parole di colore oscuro Ed elli a me, come persona accorta: Noi siam venuti al loco ov' i' t'ho detto E poi che la sua mano a la mia puose Quivi sospiri, pianti e alti guai Diverse lingue, orribili favelle, facevano un tumulto, il qual s'aggira E io ch'avea d'error la testa cinta, Ed elli a me: «Questo misero modo Mischiate sono a quel cattivo coro Caccianli i ciel per non esser men belli, E io: «Maestro, che è tanto greve Questi non hanno speranza di morte, Fama di loro il mondo esser non lassa; E io, che riguardai, vidi una 'nsegna e dietro le venìa sì lunga tratta Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto, Incontanente intesi e certo fui Questi sciaurati, che mai non fur vivi, Elle rigavan lor di sangue il volto, E poi ch'a riguardar oltre mi diedi, ch'i' sappia quali sono, e qual costume Ed elli a me: «Le cose ti fier conte Allor con li occhi vergognosi e bassi, Ed ecco verso noi venir per nave Non isperate mai veder lo cielo: E tu che se' costì, anima viva, disse: «Per altra via, per altri porti E 'l duca lui: «Caron, non ti crucciare: Quinci fuor quete le lanose gote Ma quell' anime, ch'eran lasse e nude, Bestemmiavano Dio e lor parenti, Poi si ritrasser tutte quante insieme, Caron dimonio, con occhi di bragia Come d'autunno si levan le foglie similemente il mal seme d'Adamo Così sen vanno su per l'onda bruna, «Figliuol mio», disse 'l maestro cortese, e pronti sono a trapassar lo rio, Quinci non passa mai anima buona; Finito questo, la buia campagna La terra lagrimosa diede vento, e caddi come l'uom cui sonno piglia. Inferno: Canto IV (indice)[Canto quarto, nel quale mostra del primo cerchio de l'inferno, luogo detto Limbo, e quivi tratta de la pena de' non battezzati e de' valenti uomini, li quali moriron innanzi l'avvenimento di Gesù Cristo e non conobbero debitamente Idio; e come Iesù Cristo trasse di questo luogo molte anime.] Ruppemi l'alto sonno ne la testa e l'occhio riposato intorno mossi, Vero è che 'n su la proda mi trovai Oscura e profonda era e nebulosa «Or discendiam qua giù nel cieco mondo», E io, che del color mi fui accorto, Ed elli a me: «L'angoscia de le genti Andiam, ché la via lunga ne sospigne». Quivi, secondo che per ascoltare, ciò avvenia di duol sanza martìri, Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi ch'ei non peccaro; e s'elli hanno mercedi, e s'e' furon dinanzi al cristianesmo, Per tai difetti, non per altro rio, Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi, «Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore», «uscicci mai alcuno, o per suo merto rispuose: «Io era nuovo in questo stato, Trasseci l'ombra del primo parente, Abraàm patrïarca e Davìd re, e altri molti, e feceli beati. Non lasciavam l'andar perch' ei dicessi, Non era lunga ancor la nostra via Di lungi n'eravamo ancora un poco, «O tu ch'onori scïenzïa e arte, E quelli a me: «L'onrata nominanza Intanto voce fu per me udita: Poi che la voce fu restata e queta, Lo buon maestro cominciò a dire: quelli è Omero poeta sovrano; Però che ciascun meco si convene Così vid' i' adunar la bella scola Da ch'ebber ragionato insieme alquanto, e più d'onore ancora assai mi fenno, Così andammo infino a la lumera, Venimmo al piè d'un nobile castello, Questo passammo come terra dura; Genti v'eran con occhi tardi e gravi, Traemmoci così da l'un de' canti, Colà diritto, sovra 'l verde smalto, I' vidi Eletra con molti compagni, Vidi Cammilla e la Pantasilea; Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino, Poi ch'innalzai un poco più le ciglia, Tutti lo miran, tutti onor li fanno: Democrito che 'l mondo a caso pone, e vidi il buono accoglitor del quale, Euclide geomètra e Tolomeo, Io non posso ritrar di tutti a pieno, La sesta compagnia in due si scema: E vegno in parte ove non è che luca. Inferno: Canto V (indice)[Canto quinto, nel quale mostra del secondo cerchio de l'inferno, e tratta de la pena del vizio de la lussuria ne la persona di più famosi gentili uomini.] Così discesi del cerchio primaio Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: Dico che quando l'anima mal nata vede qual loco d'inferno è da essa; Sempre dinanzi a lui ne stanno molte: «O tu che vieni al doloroso ospizio», «guarda com' entri e di cui tu ti fide; Non impedir lo suo fatale andare: Or incomincian le dolenti note Io venni in loco d'ogne luce muto, La bufera infernal, che mai non resta, Quando giungon davanti a la ruina, Intesi ch'a così fatto tormento E come li stornei ne portan l'ali di qua, di là, di giù, di sù li mena; E come i gru van cantando lor lai, ombre portate da la detta briga; «La prima di color di cui novelle A vizio di lussuria fu sì rotta, Ell' è Semiramìs, di cui si legge L'altra è colei che s'ancise amorosa, Elena vedi, per cui tanto reo Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille Poscia ch'io ebbi 'l mio dottore udito I' cominciai: «Poeta, volontieri Ed elli a me: «Vedrai quando saranno Sì tosto come il vento a noi li piega, Quali colombe dal disio chiamate cotali uscir de la schiera ov' è Dido, «O animal grazïoso e benigno se fosse amico il re de l'universo, Di quel che udire e che parlar vi piace, Siede la terra dove nata fui Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende, Amor, ch'a nullo amato amar perdona, Amor condusse noi ad una morte. Quand' io intesi quell' anime offense, Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso, Poi mi rivolsi a loro e parla' io, Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri, E quella a me: «Nessun maggior dolore Ma s'a conoscer la prima radice Noi leggiavamo un giorno per diletto Per più fïate li occhi ci sospinse Quando leggemmo il disïato riso la bocca mi basciò tutto tremante. Mentre che l'uno spirto questo disse, E caddi come corpo morto cade. Inferno: Canto VI (indice)[Canto sesto, nel quale mostra del terzo cerchio de l'inferno e tratta del punimento del vizio de la gola, e massimamente in persona d'un fiorentino chiamato Ciacco; in confusione di tutt'i buffoni tratta del dimonio Cerbero e narra in forma di predicere più cose a divenire a la città di Fiorenza.] Al tornar de la mente, che si chiuse novi tormenti e novi tormentati Io sono al terzo cerchio, de la piova Grandine grossa, acqua tinta e neve Cerbero, fiera crudele e diversa, Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, Urlar li fa la pioggia come cani; Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo, E 'l duca mio distese le sue spanne, Qual è quel cane ch'abbaiando agogna, cotai si fecer quelle facce lorde Noi passavam su per l'ombre che adona Elle giacean per terra tutte quante, «O tu che se' per questo 'nferno tratto», E io a lui: «L'angoscia che tu hai Ma dimmi chi tu se' che 'n sì dolente Ed elli a me: «La tua città, ch'è piena Voi cittadini mi chiamaste Ciacco: E io anima trista non son sola, Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno li cittadin de la città partita; E quelli a me: «Dopo lunga tencione Poi appresso convien che questa caggia Alte terrà lungo tempo le fronti, Giusti son due, e non vi sono intesi; Qui puose fine al lagrimabil suono. Farinata e 'l Tegghiaio, che fuor sì degni, dimmi ove sono e fa ch'io li conosca; E quelli: «Ei son tra l'anime più nere; Ma quando tu sarai nel dolce mondo, Li diritti occhi torse allora in biechi; E 'l duca disse a me: «Più non si desta ciascun rivederà la trista tomba, Sì trapassammo per sozza mistura per ch'io dissi: «Maestro, esti tormenti Ed elli a me: «Ritorna a tua scïenza, Tutto che questa gente maladetta Noi aggirammo a tondo quella strada, quivi trovammo Pluto, il gran nemico. Inferno: Canto VII (indice)[Canto settimo, dove si dimostra del quarto cerchio de l'inferno e alquanto del quinto; qui pone la pena del peccato de l'avarizia e del vizio de la prodigalità; e del dimonio Pluto; e quello che è fortuna.] «Pape Satàn, pape Satàn aleppe!», disse per confortarmi: «Non ti noccia Poi si rivolse a quella 'nfiata labbia, Non è sanza cagion l'andare al cupo: Quali dal vento le gonfiate vele Così scendemmo ne la quarta lacca, Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa Come fa l'onda là sovra Cariddi, Qui vid' i' gente più ch'altrove troppa, Percotëansi 'ncontro; e poscia pur lì Così tornavan per lo cerchio tetro poi si volgea ciascun, quand' era giunto, dissi: «Maestro mio, or mi dimostra Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci Assai la voce lor chiaro l'abbaia, Questi fuor cherci, che non han coperchio E io: «Maestro, tra questi cotali Ed elli a me: «Vano pensiero aduni: In etterno verranno a li due cozzi: Mal dare e mal tener lo mondo pulcro Or puoi, figliuol, veder la corta buffa ché tutto l'oro ch'è sotto la luna «Maestro mio», diss' io, «or mi dì anche: E quelli a me: «Oh creature sciocche, Colui lo cui saver tutto trascende, distribuendo igualmente la luce. che permutasse a tempo li ben vani per ch'una gente impera e l'altra langue, Vostro saver non ha contasto a lei: Le sue permutazion non hanno triegue: Quest' è colei ch'è tanto posta in croce ma ella s'è beata e ciò non ode: Or discendiamo omai a maggior pieta; Noi ricidemmo il cerchio a l'altra riva L'acqua era buia assai più che persa; In la palude va c'ha nome Stige E io, che di mirare stava inteso, Queste si percotean non pur con mano, Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi che sotto l'acqua è gente che sospira, Fitti nel limo dicon: "Tristi fummo or ci attristiam ne la belletta negra". Così girammo de la lorda pozza Venimmo al piè d'una torre al da sezzo. Inferno: Canto VIII (indice)[Canto ottavo, ove tratta del quinto cerchio de l'inferno e alquanto del sesto, e de la pena del peccato de l'ira, massimamente in persona d'uno cavaliere fiorentino chiamato messer Filippo Argenti, e del dimonio Flegias e de la palude di Stige e del pervenire a la città d'inferno detta Dite.] Io dico, seguitando, ch'assai prima per due fiammette che i vedemmo porre, E io mi volsi al mar di tutto 'l senno; Ed elli a me: «Su per le sucide onde Corda non pinse mai da sé saetta venir per l'acqua verso noi in quella, «Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto», Qual è colui che grande inganno ascolta Lo duca mio discese ne la barca, Tosto che 'l duca e io nel legno fui, Mentre noi corravam la morta gora, E io a lui: «S'i' vegno, non rimango; E io a lui: «Con piangere e con lutto, Allor distese al legno ambo le mani; Lo collo poi con le braccia mi cinse; Quei fu al mondo persona orgogliosa; Quanti si tegnon or là sù gran regi E io: «Maestro, molto sarei vago Ed elli a me: «Avante che la proda Dopo ciò poco vid' io quello strazio Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»; Quivi il lasciammo, che più non ne narro; Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo, E io: «Maestro, già le sue meschite fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno Noi pur giugnemmo dentro a l'alte fosse Non sanza prima far grande aggirata, Io vidi più di mille in su le porte va per lo regno de la morta gente?». Allor chiusero un poco il gran disdegno Sol si ritorni per la folle strada: Pensa, lettor, se io mi sconfortai «O caro duca mio, che più di sette non mi lasciar», diss' io, «così disfatto; E quel segnor che lì m'avea menato, Ma qui m'attendi, e lo spirito lasso Così sen va, e quivi m'abbandona Udir non potti quello ch'a lor porse; Chiuser le porte que' nostri avversari Li occhi a la terra e le ciglia avea rase E a me disse: «Tu, perch' io m'adiri, Questa lor tracotanza non è nova; Sovr' essa vedestù la scritta morta: tal che per lui ne fia la terra aperta». Inferno: Canto IX (indice)[Canto nono, ove tratta e dimostra de la cittade c'ha nome Dite, la qual si è nel sesto cerchio de l'inferno e vedesi messa la qualità de le pene de li eretici; e dichiara in questo canto Virgilio a Dante una questione, e rendelo sicuro dicendo sé esservi stato dentro altra fiata.] Quel color che viltà di fuor mi pinse Attento si fermò com' uom ch'ascolta; «Pur a noi converrà vincer la punga», I' vidi ben sì com' ei ricoperse ma nondimen paura il suo dir dienne, «In questo fondo de la trista conca Questa question fec' io; e quei «Di rado Ver è ch'altra fïata qua giù fui, Di poco era di me la carne nuda, Quell' è 'l più basso loco e 'l più oscuro, Questa palude che 'l gran puzzo spira E altro disse, ma non l'ho a mente; dove in un punto furon dritte ratto e con idre verdissime eran cinte; E quei, che ben conobbe le meschine Quest' è Megera dal sinistro canto; Con l'unghie si fendea ciascuna il petto; «Vegna Medusa: sì 'l farem di smalto», «Volgiti 'n dietro e tien lo viso chiuso; Così disse 'l maestro; ed elli stessi O voi ch'avete li 'ntelletti sani, E già venìa su per le torbide onde non altrimenti fatto che d'un vento li rami schianta, abbatte e porta fori; Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo Come le rane innanzi a la nimica vid' io più di mille anime distrutte Dal volto rimovea quell' aere grasso, Ben m'accorsi ch'elli era da ciel messo, Ahi quanto mi parea pien di disdegno! «O cacciati del ciel, gente dispetta», Perché recalcitrate a quella voglia Che giova ne le fata dar di cozzo? Poi si rivolse per la strada lorda, che quella di colui che li è davante; Dentro li 'ntrammo sanz' alcuna guerra; com' io fui dentro, l'occhio intorno invio: Sì come ad Arli, ove Rodano stagna, fanno i sepulcri tutt' il loco varo, ché tra li avelli fiamme erano sparte, Tutti li lor coperchi eran sospesi, E io: «Maestro, quai son quelle genti E quelli a me: «Qui son li eresïarche Simile qui con simile è sepolto, passammo tra i martìri e li alti spaldi. Inferno: Canto X (indice)[Canto decimo, ove tratta del sesto cerchio de l'inferno e de la pena de li eretici, e in forma d'indovinare in persona di messer Farinata predice molte cose e di quelle che avvennero a Dante, e solve una questione.] Ora sen va per un secreto calle, «O virtù somma, che per li empi giri La gente che per li sepolcri giace E quelli a me: «Tutti saran serrati Suo cimitero da questa parte hanno Però a la dimanda che mi faci E io: «Buon duca, non tegno riposto «O Tosco che per la città del foco La tua loquela ti fa manifesto Subitamente questo suono uscìo Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai? Io avea già il mio viso nel suo fitto; E l'animose man del duca e pronte Com' io al piè de la sua tomba fui, Io ch'era d'ubidir disideroso, poi disse: «Fieramente furo avversi «S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogne parte», Allor surse a la vista scoperchiata Dintorno mi guardò, come talento piangendo disse: «Se per questo cieco E io a lui: «Da me stesso non vegno: Le sue parole e 'l modo de la pena Di sùbito drizzato gridò: «Come? Quando s'accorse d'alcuna dimora Ma quell' altro magnanimo, a cui posta e sé continüando al primo detto, Ma non cinquanta volte fia raccesa E se tu mai nel dolce mondo regge, Ond' io a lui: «Lo strazio e 'l grande scempio Poi ch'ebbe sospirando il capo mosso, Ma fu' io solo, là dove sofferto «Deh, se riposi mai vostra semenza», El par che voi veggiate, se ben odo, «Noi veggiam, come quei c'ha mala luce, Quando s'appressano o son, tutto è vano Però comprender puoi che tutta morta Allor, come di mia colpa compunto, e s'i' fui, dianzi, a la risposta muto, E già 'l maestro mio mi richiamava; Dissemi: «Qui con più di mille giaccio: Indi s'ascose; e io inver' l'antico Elli si mosse; e poi, così andando, «La mente tua conservi quel ch'udito «quando sarai dinanzi al dolce raggio Appresso mosse a man sinistra il piede: che 'nfin là sù facea spiacer suo lezzo. Inferno: Canto XI (indice)[Canto undecimo, nel quale tratta de' tre cerchi disotto d'inferno, e distingue de le genti che dentro vi sono punite, e che quivi più che altrove; e solve una questione.] In su l'estremità d'un'alta ripa e quivi, per l'orribile soperchio d'un grand' avello, ov' io vidi una scritta «Lo nostro scender conviene esser tardo, Così 'l maestro; e io «Alcun compenso», «Figliuol mio, dentro da cotesti sassi», Tutti son pien di spirti maladetti; D'ogne malizia, ch'odio in cielo acquista, Ma perché frode è de l'uom proprio male, Di vïolenti il primo cerchio è tutto; A Dio, a sé, al prossimo si pòne Morte per forza e ferute dogliose onde omicide e ciascun che mal fiere, Puote omo avere in sé man vïolenta qualunque priva sé del vostro mondo, Puossi far forza ne la deïtade, e però lo minor giron suggella La frode, ond' ogne coscïenza è morsa, Questo modo di retro par ch'incida ipocresia, lusinghe e chi affattura, Per l'altro modo quell' amor s'oblia onde nel cerchio minore, ov' è 'l punto E io: «Maestro, assai chiara procede Ma dimmi: quei de la palude pingue, perché non dentro da la città roggia Ed elli a me «Perché tanto delira», Non ti rimembra di quelle parole incontenenza, malizia e la matta Se tu riguardi ben questa sentenza, tu vedrai ben perché da questi felli «O sol che sani ogne vista turbata, Ancora in dietro un poco ti rivolvi», «Filosofia», mi disse, «a chi la 'ntende, dal divino 'ntelletto e da sua arte; che l'arte vostra quella, quanto pote, Da queste due, se tu ti rechi a mente e perché l'usuriere altra via tene, Ma seguimi oramai che 'l gir mi piace; e 'l balzo via là oltra si dismonta». Inferno: Canto XII (indice)[Canto XII, ove tratta del discendimento nel settimo cerchio d'inferno, e de le pene di quelli che fecero forza in persona de' tiranni, e qui tratta di Minotauro e del fiume del sangue, e come per uno centauro furono scorti e guidati sicuri oltre il fiume.] Era lo loco ov' a scender la riva Qual è quella ruina che nel fianco che da cima del monte, onde si mosse, cotal di quel burrato era la scesa; che fu concetta ne la falsa vacca; Lo savio mio inver' lui gridò: «Forse Pàrtiti, bestia, ché questi non vene Qual è quel toro che si slaccia in quella vid' io lo Minotauro far cotale; Così prendemmo via giù per lo scarco Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensi Or vo' che sappi che l'altra fïata Ma certo poco pria, se ben discerno, da tutte parti l'alta valle feda più volte il mondo in caòsso converso; Ma ficca li occhi a valle, ché s'approccia Oh cieca cupidigia e ira folle, Io vidi un'ampia fossa in arco torta, e tra 'l piè de la ripa ed essa, in traccia Veggendoci calar, ciascun ristette, e l'un gridò da lungi: «A qual martiro Lo mio maestro disse: «La risposta Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso, E quel di mezzo, ch'al petto si mira, Dintorno al fosso vanno a mille a mille, Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle: Quando s'ebbe scoperta la gran bocca, Così non soglion far li piè d'i morti». rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto Tal si partì da cantare alleluia Ma per quella virtù per cu' io movo e che ne mostri là dove si guada, Chirón si volse in su la destra poppa, Or ci movemmo con la scorta fida Io vidi gente sotto infino al ciglio; Quivi si piangon li spietati danni; E quella fronte c'ha 'l pel così nero, fu spento dal figliastro sù nel mondo». Poco più oltre il centauro s'affisse Mostrocci un'ombra da l'un canto sola, Poi vidi gente che di fuor del rio Così a più a più si facea basso «Sì come tu da questa parte vedi che da quest' altra a più a più giù prema La divina giustizia di qua punge le lagrime, che col bollor diserra, Poi si rivolse e ripassossi 'l guazzo. Inferno: Canto XIII (indice)[Canto XIII, ove tratta de l'esenzia del secondo girone ch'è nel settimo circulo, dove punisce coloro ch'ebbero contra sé medesimi violenta mano, ovvero non uccidendo sé ma guastando i loro beni.] Non era ancor di là Nesso arrivato, Non fronda verde, ma di color fosco; Non han sì aspri sterpi né sì folti Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, Ali hanno late, e colli e visi umani, E 'l buon maestro «Prima che più entre, che tu verrai ne l'orribil sabbione. Io sentia d'ogne parte trarre guai Cred' ïo ch'ei credette ch'io credesse Però disse 'l maestro: «Se tu tronchi Allor porsi la mano un poco avante Da che fatto fu poi di sangue bruno, Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: Come d'un stizzo verde ch'arso sia sì de la scheggia rotta usciva insieme «S'elli avesse potuto creder prima», non averebbe in te la man distesa; Ma dilli chi tu fosti, sì che 'n vece E 'l tronco: «Sì col dolce dir m'adeschi, Io son colui che tenni ambo le chiavi che dal secreto suo quasi ogn' uom tolsi; La meretrice che mai da l'ospizio infiammò contra me li animi tutti; L'animo mio, per disdegnoso gusto, Per le nove radici d'esto legno E se di voi alcun nel mondo riede, Un poco attese, e poi «Da ch'el si tace», Ond' ïo a lui: «Domandal tu ancora Perciò ricominciò: «Se l'om ti faccia di dirne come l'anima si lega Allor soffiò il tronco forte, e poi Quando si parte l'anima feroce Cade in la selva, e non l'è parte scelta; Surge in vermena e in pianta silvestra: Come l'altre verrem per nostre spoglie, Qui le strascineremo, e per la mesta Noi eravamo ancora al tronco attesi, similemente a colui che venire Ed ecco due da la sinistra costa, Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!». le gambe tue a le giostre dal Toppo!». Di rietro a loro era la selva piena In quel che s'appiattò miser li denti, Presemi allor la mia scorta per mano, «O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea, Quando 'l maestro fu sovr' esso fermo, Ed elli a noi: «O anime che giunte raccoglietele al piè del tristo cesto. sempre con l'arte sua la farà trista; que' cittadin che poi la rifondarno Io fei gibetto a me de le mie case». Inferno: Canto XIV (indice)[Canto XIV, ove tratta de la qualità del terzo girone, contento nel settimo circulo; e quivi si puniscono coloro che fanno forza ne la deitade, negando e bestemmiando quella; e nomina qui spezialmente il re Capaneo scelleratissimo in questo preditto peccato.] Poi che la carità del natio loco Indi venimmo al fine ove si parte A ben manifestar le cose nove, La dolorosa selva l'è ghirlanda Lo spazzo era una rena arida e spessa, O vendetta di Dio, quanto tu dei D'anime nude vidi molte gregge Supin giacea in terra alcuna gente, Quella che giva 'ntorno era più molta, Sovra tutto 'l sabbion, d'un cader lento, Quali Alessandro in quelle parti calde per ch'ei provide a scalpitar lo suolo tale scendeva l'etternale ardore; Sanza riposo mai era la tresca I' cominciai: «Maestro, tu che vinci chi è quel grande che non par che curi E quel medesmo, che si fu accorto Se Giove stanchi 'l suo fabbro da cui o s'elli stanchi li altri a muta a muta sì com' el fece a la pugna di Flegra, Allora il duca mio parlò di forza la tua superbia, se' tu più punito; Poi si rivolse a me con miglior labbia, Dio in disdegno, e poco par che 'l pregi; Or mi vien dietro, e guarda che non metti, Tacendo divenimmo là 've spiccia Quale del Bulicame esce ruscello Lo fondo suo e ambo le pendici «Tra tutto l'altro ch'i' t'ho dimostrato, cosa non fu da li tuoi occhi scorta Queste parole fuor del duca mio; «In mezzo mar siede un paese guasto», Una montagna v'è che già fu lieta Rëa la scelse già per cuna fida Dentro dal monte sta dritto un gran veglio, La sua testa è di fin oro formata, da indi in giuso è tutto ferro eletto, Ciascuna parte, fuor che l'oro, è rotta Lor corso in questa valle si diroccia; infin, là dove più non si dismonta, E io a lui: «Se 'l presente rigagno Ed elli a me: «Tu sai che 'l loco è tondo; non se' ancor per tutto 'l cerchio vòlto; E io ancor: «Maestro, ove si trova «In tutte tue question certo mi piaci», Letè vedrai, ma fuor di questa fossa, Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi e sopra loro ogne vapor si spegne». Inferno: Canto XV (indice)[Canto XV, ove tratta di quello medesimo girone e di quello medesimo cerchio; e qui sono puniti coloro che fanno forza ne la deitade, spregiando natura e sua bontade, sì come sono li soddomiti.] Ora cen porta l'un de' duri margini; Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, e quali Padoan lungo la Brenta, a tale imagine eran fatti quelli, Già eravam da la selva rimossi quando incontrammo d'anime una schiera guardare uno altro sotto nuova luna; Così adocchiato da cotal famiglia, E io, quando 'l suo braccio a me distese, la conoscenza süa al mio 'ntelletto; E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia I' dissi lui: «Quanto posso, ven preco; «O figliuol», disse, «qual di questa greggia Però va oltre: i' ti verrò a' panni; Io non osava scender de la strada El cominciò: «Qual fortuna o destino «Là sù di sopra, in la vita serena», Pur ier mattina le volsi le spalle: Ed elli a me: «Se tu segui tua stella, e s'io non fossi sì per tempo morto, Ma quello ingrato popolo maligno ti si farà, per tuo ben far, nimico; Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; La tua fortuna tanto onor ti serba, Faccian le bestie fiesolane strame in cui riviva la sementa santa «Se fosse tutto pieno il mio dimando», ché 'n la mente m'è fitta, e or m'accora, m'insegnavate come l'uom s'etterna: Ciò che narrate di mio corso scrivo, Tanto vogl' io che vi sia manifesto, Non è nuova a li orecchi miei tal arra: Lo mio maestro allora in su la gota Né per tanto di men parlando vommi Ed elli a me: «Saper d'alcuno è buono; In somma sappi che tutti fur cherci Priscian sen va con quella turba grama, colui potei che dal servo de' servi Di più direi; ma 'l venire e 'l sermone Gente vien con la quale esser non deggio. Poi si rivolse, e parve di coloro quelli che vince, non colui che perde. Inferno: Canto XVI (indice)[Canto XVI, ove tratta di quello medesimo girone e di quello medesimo cerchio e di quello medesimo peccato.] Già era in loco onde s'udia 'l rimbombo quando tre ombre insieme si partiro, Venian ver' noi, e ciascuna gridava: Ahimè, che piaghe vidi ne' lor membri, A le lor grida il mio dottor s'attese; E se non fosse il foco che saetta Ricominciar, come noi restammo, ei Qual sogliono i campion far nudi e unti, così rotando, ciascuno il visaggio E «Se miseria d'esto loco sollo la fama nostra il tuo animo pieghi Questi, l'orme di cui pestar mi vedi, nepote fu de la buona Gualdrada; L'altro, ch'appresso me la rena trita, E io, che posto son con loro in croce, S'i' fossi stato dal foco coperto, ma perch' io mi sarei brusciato e cotto, Poi cominciai: «Non dispetto, ma doglia tosto che questo mio segnor mi disse Di vostra terra sono, e sempre mai Lascio lo fele e vo per dolci pomi «Se lungamente l'anima conduca cortesia e valor dì se dimora ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole «La gente nuova e i sùbiti guadagni Così gridai con la faccia levata; «Se l'altre volte sì poco ti costa», Però, se campi d'esti luoghi bui fa che di noi a la gente favelle». Un amen non saria possuto dirsi Io lo seguiva, e poco eravam iti, Come quel fiume c'ha proprio cammino che si chiama Acquacheta suso, avante rimbomba là sovra San Benedetto così, giù d'una ripa discoscesa, Io avea una corda intorno cinta, Poscia ch'io l'ebbi tutta da me sciolta, Ond' ei si volse inver' lo destro lato, «E' pur convien che novità risponda», Ahi quanto cauti li uomini esser dienno El disse a me: «Tosto verrà di sovra Sempre a quel ver c'ha faccia di menzogna ma qui tacer nol posso; e per le note ch'i' vidi per quell' aere grosso e scuro sì come torna colui che va giuso che 'n sù si stende e da piè si rattrappa. Inferno: Canto XVII (indice)[Canto XVII, nel quale si tratta del discendimento nel luogo detto Malebolge, che è l'ottavo cerchio de l'inferno; ancora fa proemio alquanto di quelli che sono nel settimo circulo; e quivi si truova il demonio Gerione sopra '1 quale passaro il fiume; e quivi parlò Dante ad alcuni prestatori e usurai del settimo cerchio.] «Ecco la fiera con la coda aguzza, Sì cominciò lo mio duca a parlarmi; E quella sozza imagine di froda La faccia sua era faccia d'uom giusto, due branche avea pilose insin l'ascelle; Con più color, sommesse e sovraposte Come talvolta stanno a riva i burchi, lo bivero s'assetta a far sua guerra, Nel vano tutta sua coda guizzava, Lo duca disse: «Or convien che si torca Però scendemmo a la destra mammella, E quando noi a lei venuti semo, Quivi 'l maestro «Acciò che tutta piena Li tuoi ragionamenti sian là corti; Così ancor su per la strema testa Per li occhi fora scoppiava lor duolo; non altrimenti fan di state i cani Poi che nel viso a certi li occhi porsi, che dal collo a ciascun pendea una tasca E com' io riguardando tra lor vegno, Poi, procedendo di mio sguardo il curro, E un che d'una scrofa azzurra e grossa Or te ne va; e perché se' vivo anco, Con questi Fiorentin son padoano: che recherà la tasca con tre becchi!"». E io, temendo no 'l più star crucciasse Trova' il duca mio ch'era salito Omai si scende per sì fatte scale; Qual è colui che sì presso ha 'l riprezzo tal divenn' io a le parole porte; I' m'assettai in su quelle spallacce; Ma esso, ch'altra volta mi sovvenne e disse: «Gerïon, moviti omai: Come la navicella esce di loco là 'v' era 'l petto, la coda rivolse, Maggior paura non credo che fosse né quando Icaro misero le reni che fu la mia, quando vidi ch'i' era Ella sen va notando lenta lenta; Io sentia già da la man destra il gorgo Allor fu' io più timido a lo stoscio, E vidi poi, ché nol vedea davanti, Come 'l falcon ch'è stato assai su l'ali, discende lasso onde si move isnello, così ne puose al fondo Gerïone si dileguò come da corda cocca. Inferno: Canto XVIII (indice)[Canto XVIII, ove si descrive come è fatto il luogo di Malebolge e tratta de' ruffiani e ingannatori e lusinghieri, ove dinomina in questa setta messer Venedico Caccianemico da Bologna e Giasone greco e Alessio de li Interminelli da Lucca, e tratta come sono state loro pene.] Luogo è in inferno detto Malebolge, Nel dritto mezzo del campo maligno Quel cinghio che rimane adunque è tondo Quale, dove per guardia de le mura tale imagine quivi facean quelli; così da imo de la roccia scogli In questo luogo, de la schiena scossi A la man destra vidi nova pieta, Nel fondo erano ignudi i peccatori; come i Roman per l'essercito molto, che da l'un lato tutti hanno la fronte Di qua, di là, su per lo sasso tetro Ahi come facean lor levar le berze Mentr' io andava, li occhi miei in uno Per ch'ïo a figurarlo i piedi affissi; E quel frustato celar si credette se le fazion che porti non son false, Ed elli a me: «Mal volontier lo dico; I' fui colui che la Ghisolabella E non pur io qui piango bolognese; a dicer 'sipa' tra Sàvena e Reno; Così parlando il percosse un demonio I' mi raggiunsi con la scorta mia; Assai leggeramente quel salimmo; Quando noi fummo là dov' el vaneggia lo viso in te di quest' altri mal nati, Del vecchio ponte guardavam la traccia E 'l buon maestro, sanza mia dimanda, quanto aspetto reale ancor ritene! Ello passò per l'isola di Lenno Ivi con segni e con parole ornate Lasciolla quivi, gravida, soletta; Con lui sen va chi da tal parte inganna; Già eravam là 've lo stretto calle Quindi sentimmo gente che si nicchia Le ripe eran grommate d'una muffa, Lo fondo è cupo sì, che non ci basta Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso E mentre ch'io là giù con l'occhio cerco, Quei mi sgridò: «Perché se' tu sì gordo già t'ho veduto coi capelli asciutti, Ed elli allor, battendosi la zucca: Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe», di quella sozza e scapigliata fante Taïde è, la puttana che rispuose E quinci sian le nostre viste sazie». Inferno: Canto XIX (indice)[Canto XIX, nel quale sgrida contra li simoniachi in persona di Simone Mago, che fu al tempo di san Pietro e di santo Paulo, e contra tutti coloro che simonia seguitano, e qui pone le pene che sono concedute a coloro che seguitano il sopradetto vizio, e dinomaci entro papa Niccola de li Orsini di Roma perché seguitò simonia; e pone de la terza bolgia de l'inferno.] O Simon mago, o miseri seguaci per oro e per argento avolterate, Già eravamo, a la seguente tomba, O somma sapïenza, quanta è l'arte Io vidi per le coste e per lo fondo Non mi parean men ampi né maggiori l'un de li quali, ancor non è molt' anni, Fuor de la bocca a ciascun soperchiava Le piante erano a tutti accese intrambe; Qual suole il fiammeggiar de le cose unte «Chi è colui, maestro, che si cruccia Ed elli a me: «Se tu vuo' ch'i' ti porti E io: «Tanto m'è bel, quanto a te piace: Allor venimmo in su l'argine quarto; Lo buon maestro ancor de la sua anca «O qual che se' che 'l di sù tien di sotto, Io stava come 'l frate che confessa Ed el gridò: «Se' tu già costì ritto, Se' tu sì tosto di quell' aver sazio Tal mi fec' io, quai son color che stanno, Allor Virgilio disse: «Dilli tosto: Per che lo spirto tutti storse i piedi; Se di saper ch'i' sia ti cal cotanto, e veramente fui figliuol de l'orsa, Di sotto al capo mio son li altri tratti Là giù cascherò io altresì quando Ma più è 'l tempo già che i piè mi cossi ché dopo lui verrà di più laida opra, Nuovo Iasón sarà, di cui si legge Io non so s'i' mi fui qui troppo folle, Nostro Segnore in prima da san Pietro Né Pier né li altri tolsero a Matia Però ti sta, ché tu se' ben punito; E se non fosse ch'ancor lo mi vieta io userei parole ancor più gravi; Di voi pastor s'accorse il Vangelista, quella che con le sette teste nacque, Fatto v'avete dio d'oro e d'argento; Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, E mentr' io li cantava cotai note, I' credo ben ch'al mio duca piacesse, Però con ambo le braccia mi prese; Né si stancò d'avermi a sé distretto, Quivi soavemente spuose il carco, Indi un altro vallon mi fu scoperto. Inferno: Canto XX (indice)[Canto XX, dove si tratta de l'indovini e sortilegi e de l'incantatori, e de l'origine di Mantova, di che trattare diede cagione Manto incantatrice; e di loro pene e miseria e de la condizione loro misera, ne la quarta bolgia, in persona di Michele di Scozia e di più altri.] Di nova pena mi conven far versi Io era già disposto tutto quanto e vidi gente per lo vallon tondo Come 'l viso mi scese in lor più basso, ché da le reni era tornato 'l volto, Forse per forza già di parlasia Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto quando la nostra imagine di presso Certo io piangea, poggiato a un de' rocchi Qui vive la pietà quand' è ben morta; Drizza la testa, drizza, e vedi a cui Anfïarao? perché lasci la guerra?". Mira c'ha fatto petto de le spalle; Vedi Tiresia, che mutò sembiante e prima, poi, ribatter li convenne Aronta è quel ch'al ventre li s'atterga, ebbe tra ' bianchi marmi la spelonca E quella che ricuopre le mammelle, Manto fu, che cercò per terre molte; Poscia che 'l padre suo di vita uscìo Suso in Italia bella giace un laco, Per mille fonti, credo, e più si bagna Loco è nel mezzo là dove 'l trentino Siede Peschiera, bello e forte arnese Ivi convien che tutto quanto caschi Tosto che l'acqua a correr mette co, Non molto ha corso, ch'el trova una lama, Quindi passando la vergine cruda Lì, per fuggire ogne consorzio umano, Li uomini poi che 'ntorno erano sparti Fer la città sovra quell' ossa morte; Già fuor le genti sue dentro più spesse, Però t'assenno che, se tu mai odi E io: «Maestro, i tuoi ragionamenti Ma dimmi, de la gente che procede, Allor mi disse: «Quel che da la gota sì ch'a pena rimaser per le cune - Euripilo ebbe nome, e così 'l canta Quell' altro che ne' fianchi è così poco, Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente, Vedi le triste che lasciaron l'ago, Ma vienne omai, ché già tiene 'l confine e già iernotte fu la luna tonda: Sì mi parlava, e andavamo introcque. Inferno: Canto XXI (indice)[Canto XXI, il quale tratta de le pene ne le quali sono puniti coloro che commisero baratteria, nel quale vizio abbomina li lucchesi; e qui tratta di dieci demoni, ministri a l'offizio di questo luogo; e cogliesi qui il tempo che fue compilata per Dante questa opera.] Così di ponte in ponte, altro parlando restammo per veder l'altra fessura Quale ne l'arzanà de' Viniziani ché navicar non ponno - in quella vece chi ribatte da proda e chi da poppa; tal, non per foco ma per divin' arte, I' vedea lei, ma non vedëa in essa Mentr' io là giù fisamente mirava, Allor mi volsi come l'uom cui tarda che, per veder, non indugia 'l partire: Ahi quant' elli era ne l'aspetto fero! L'omero suo, ch'era aguto e superbo, Del nostro ponte disse: «O Malebranche, a quella terra, che n'è ben fornita: Là giù 'l buttò, e per lo scoglio duro Quel s'attuffò, e tornò sù convolto; qui si nuota altrimenti che nel Serchio! Poi l'addentar con più di cento raffi, Non altrimenti i cuoci a' lor vassalli Lo buon maestro «Acciò che non si paia e per nulla offension che mi sia fatta, Poscia passò di là dal co del ponte; Con quel furore e con quella tempesta usciron quei di sotto al ponticello, Innanzi che l'uncin vostro mi pigli, Tutti gridaron: «Vada Malacoda!»; «Credi tu, Malacoda, qui vedermi sanza voler divino e fato destro? Allor li fu l'orgoglio sì caduto, E 'l duca mio a me: «O tu che siedi Per ch'io mi mossi e a lui venni ratto; così vid' ïo già temer li fanti I' m'accostai con tutta la persona Ei chinavan li raffi e «Vuo' che 'l tocchi», Ma quel demonio che tenea sermone Poi disse a noi: «Più oltre andar per questo E se l'andare avante pur vi piace, Ier, più oltre cinqu' ore che quest' otta, Io mando verso là di questi miei «Tra'ti avante, Alichino, e Calcabrina», Libicocco vegn' oltre e Draghignazzo, Cercate 'ntorno le boglienti pane; «Omè, maestro, che è quel ch'i' veggio?», Se tu se' sì accorto come suoli, Ed elli a me: «Non vo' che tu paventi; Per l'argine sinistro volta dienno; ed elli avea del cul fatto trombetta. Inferno: Canto XXII (indice)[Canto XXII, nel quale abomina quelli di Sardigna e tratta alcuna cosa de la sagacitade de' barattieri in persona d'uno navarrese, e de' barattieri medesimi questo canta.] Io vidi già cavalier muover campo, corridor vidi per la terra vostra, quando con trombe, e quando con campane, né già con sì diversa cennamella Noi andavam con li diece demoni. Pur a la pegola era la mia 'ntesa, Come i dalfini, quando fanno segno talor così, ad alleggiar la pena, E come a l'orlo de l'acqua d'un fosso sì stavan d'ogne parte i peccatori; I' vidi, e anco il cor me n'accapriccia, e Graffiacan, che li era più di contra, I' sapea già di tutti quanti 'l nome, «O Rubicante, fa che tu li metti E io: «Maestro mio, fa, se tu puoi, Lo duca mio li s'accostò allato; Mia madre a servo d'un segnor mi puose, Poi fui famiglia del buon re Tebaldo; E Cirïatto, a cui di bocca uscia Tra male gatte era venuto 'l sorco; E al maestro mio volse la faccia; Lo duca dunque: «Or dì: de li altri rii poco è, da un che fu di là vicino. E Libicocco «Troppo avem sofferto», Draghignazzo anco i volle dar di piglio Quand' elli un poco rappaciati fuoro, «Chi fu colui da cui mala partita quel di Gallura, vasel d'ogne froda, Danar si tolse e lasciolli di piano, Usa con esso donno Michel Zanche Omè, vedete l'altro che digrigna; E 'l gran proposto, vòlto a Farfarello «Se voi volete vedere o udire», ma stieno i Malebranche un poco in cesso, per un ch'io son, ne farò venir sette Cagnazzo a cotal motto levò 'l muso, Ond' ei, ch'avea lacciuoli a gran divizia, Alichin non si tenne e, di rintoppo ma batterò sovra la pece l'ali. O tu che leggi, udirai nuovo ludo: Lo Navarrese ben suo tempo colse; Di che ciascun di colpa fu compunto, Ma poco i valse: ché l'ali al sospetto non altrimenti l'anitra di botto, Irato Calcabrina de la buffa, e come 'l barattier fu disparito, Ma l'altro fu bene sparvier grifagno Lo caldo sghermitor sùbito fue; Barbariccia, con li altri suoi dolente, di qua, di là discesero a la posta; E noi lasciammo lor così 'mpacciati. Inferno: Canto XXIII (indice)[Canto XXIII, nel quale tratta de la divina vendetta contra l'ipocriti; del quale peccato sotto il vocabulo di due cittadini di Bologna abomina l'auttore li bolognesi, e li giudei sotto il nome d'Anna e di Caifas; e qui è la sesta bolgia.] Taciti, soli, sanza compagnia Vòlt' era in su la favola d'Isopo ché più non si pareggia 'mo' e 'issa' E come l'un pensier de l'altro scoppia, Io pensava così: «Questi per noi Se l'ira sovra 'l mal voler s'aggueffa, Già mi sentia tutti arricciar li peli te e me tostamente, i' ho pavento E quei: «S'i' fossi di piombato vetro, Pur mo venieno i tuo' pensier tra ' miei, S'elli è che sì la destra costa giaccia, Già non compié di tal consiglio rendere, Lo duca mio di sùbito mi prese, che prende il figlio e fugge e non s'arresta, e giù dal collo de la ripa dura Non corse mai sì tosto acqua per doccia come 'l maestro mio per quel vivagno, A pena fuoro i piè suoi giunti al letto ché l'alta provedenza che lor volle Là giù trovammo una gente dipinta Elli avean cappe con cappucci bassi Di fuor dorate son, sì ch'elli abbaglia; Oh in etterno faticoso manto! ma per lo peso quella gente stanca Per ch'io al duca mio: «Fa che tu trovi E un che 'ntese la parola tosca, Forse ch'avrai da me quel che tu chiedi». Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta Quando fuor giunti, assai con l'occhio bieco «Costui par vivo a l'atto de la gola; Poi disser me: «O Tosco, ch'al collegio E io a loro: «I' fui nato e cresciuto Ma voi chi siete, a cui tanto distilla E l'un rispuose a me: «Le cappe rance Frati godenti fummo, e bolognesi; come suole esser tolto un uom solingo, Io cominciai: «O frati, i vostri mali... »; Quando mi vide, tutto si distorse, mi disse: «Quel confitto che tu miri, Attraversato è, nudo, ne la via, E a tal modo il socero si stenta Allor vid' io maravigliar Virgilio Poscia drizzò al frate cotal voce: onde noi amendue possiamo uscirci, Rispuose adunque: «Più che tu non speri salvo che 'n questo è rotto e nol coperchia; Lo duca stette un poco a testa china; E 'l frate: «Io udi' già dire a Bologna Appresso il duca a gran passi sen gì, dietro a le poste de le care piante. Inferno: Canto XXIV (indice)[Canto XXIV, nel quale tratta de le pene che puniscono li furti, dove trattando de' ladroni sgrida contro a' Pistolesi sotto il vocabulo di Vanni Fucci, per la cui lingua antidice del tempo futuro; ed è la settima bolgia.] In quella parte del giovanetto anno quando la brina in su la terra assempra lo villanello a cui la roba manca, ritorna in casa, e qua e là si lagna, veggendo 'l mondo aver cangiata faccia Così mi fece sbigottir lo mastro ché, come noi venimmo al guasto ponte, Le braccia aperse, dopo alcun consiglio E come quei ch'adopera ed estima, d'un ronchione, avvisava un'altra scheggia Non era via da vestito di cappa, E se non fosse che da quel precinto Ma perché Malebolge inver' la porta che l'una costa surge e l'altra scende; La lena m'era del polmon sì munta «Omai convien che tu così ti spoltre», sanza la qual chi sua vita consuma, E però leva sù; vinci l'ambascia Più lunga scala convien che si saglia; Leva'mi allor, mostrandomi fornito Su per lo scoglio prendemmo la via, Parlando andava per non parer fievole; Non so che disse, ancor che sovra 'l dosso Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi da l'altro cinghio e dismontiam lo muro; «Altra risposta», disse, «non ti rendo Noi discendemmo il ponte da la testa e vidivi entro terribile stipa Più non si vanti Libia con sua rena; né tante pestilenzie né sì ree Tra questa cruda e tristissima copia con serpi le man dietro avean legate; Ed ecco a un ch'era da nostra proda, Né O sì tosto mai né I si scrisse, e poi che fu a terra sì distrutto, Così per li gran savi si confessa erba né biado in sua vita non pasce, E qual è quel che cade, e non sa como, quando si leva, che 'ntorno si mira tal era 'l peccator levato poscia. Lo duca il domandò poi chi ello era; Vita bestial mi piacque e non umana, E ïo al duca: «Dilli che non mucci, E 'l peccator, che 'ntese, non s'infinse, poi disse: «Più mi duol che tu m'hai colto Io non posso negar quel che tu chiedi; e falsamente già fu apposto altrui. apri li orecchi al mio annunzio, e odi. Tragge Marte vapor di Val di Magra sovra Campo Picen fia combattuto; E detto l'ho perché doler ti debbia!». Inferno: Canto XXV (indice)[Canto XXV, dove si tratta di quella medesima materia che detta è nel capitolo dinanzi a questo, e tratta contr' a' fiorentini, ma in prima sgrida contro a la città di Pistoia; ed è quella medesima bolgia.] Al fine de le sue parole il ladro Da indi in qua mi fuor le serpi amiche, e un'altra a le braccia, e rilegollo, Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi Per tutt' i cerchi de lo 'nferno scuri El si fuggì che non parlò più verbo; Maremma non cred' io che tante n'abbia, Sovra le spalle, dietro da la coppa, Lo mio maestro disse: «Questi è Caco, Non va co' suoi fratei per un cammino, onde cessar le sue opere biece Mentre che sì parlava, ed el trascorse, se non quando gridar: «Chi siete voi?»; Io non li conoscea; ma ei seguette, dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»; Se tu se' or, lettore, a creder lento Com' io tenea levate in lor le ciglia, Co' piè di mezzo li avvinse la pancia li diretani a le cosce distese, Ellera abbarbicata mai non fue Poi s'appiccar, come di calda cera come procede innanzi da l'ardore, Li altri due 'l riguardavano, e ciascuno Già eran li due capi un divenuti, Fersi le braccia due di quattro liste; Ogne primaio aspetto ivi era casso: Come 'l ramarro sotto la gran fersa sì pareva, venendo verso l'epe e quella parte onde prima è preso Lo trafitto 'l mirò, ma nulla disse; Elli 'l serpente e quei lui riguardava; Taccia Lucano ormai là dov' e' tocca Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio, ché due nature mai a fronte a fronte Insieme si rispuosero a tai norme, Le gambe con le cosce seco stesse Togliea la coda fessa la figura Io vidi intrar le braccia per l'ascelle, Poscia li piè di rietro, insieme attorti, Mentre che 'l fummo l'uno e l'altro vela l'un si levò e l'altro cadde giuso, Quel ch'era dritto, il trasse ver' le tempie, ciò che non corse in dietro e si ritenne Quel che giacëa, il muso innanzi caccia, e la lingua, ch'avëa unita e presta L'anima ch'era fiera divenuta, Poscia li volse le novelle spalle, Così vid' io la settima zavorra E avvegna che li occhi miei confusi ch'i' non scorgessi ben Puccio Sciancato; l'altr' era quel che tu, Gaville, piagni. Inferno: Canto XXVI (indice)[Canto XXVI, nel quale si tratta de l'ottava bolgia contro a quelli che mettono aguati e danno frodolenti consigli; e in prima sgrida contro a' fiorentini e tacitamente predice del futuro e in persona d'Ulisse e Diomedes pone loro pene.] Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande Tra li ladron trovai cinque cotali Ma se presso al mattin del ver si sogna, E se già fosse, non saria per tempo. Noi ci partimmo, e su per le scalee e proseguendo la solinga via, Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio perché non corra che virtù nol guidi; Quante 'l villan ch'al poggio si riposa, come la mosca cede a la zanzara, di tante fiamme tutta risplendea E qual colui che si vengiò con li orsi che nol potea sì con li occhi seguire, tal si move ciascuna per la gola Io stava sovra 'l ponte a veder surto, E 'l duca che mi vide tanto atteso, «Maestro mio», rispuos' io, «per udirti chi è 'n quel foco che vien sì diviso Rispuose a me: «Là dentro si martira e dentro da la lor fiamma si geme Piangevisi entro l'arte per che, morta, «S'ei posson dentro da quelle faville che non mi facci de l'attender niego Ed elli a me: «La tua preghiera è degna Lascia parlare a me, ch'i' ho concetto Poi che la fiamma fu venuta quivi «O voi che siete due dentro ad un foco, quando nel mondo li alti versi scrissi, Lo maggior corno de la fiamma antica indi la cima qua e là menando, mi diparti' da Circe, che sottrasse né dolcezza di figlio, né la pieta vincer potero dentro a me l'ardore ma misi me per l'alto mare aperto L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna, Io e ' compagni eravam vecchi e tardi acciò che l'uom più oltre non si metta; "O frati", dissi, "che per cento milia d'i nostri sensi ch'è del rimanente Considerate la vostra semenza: Li miei compagni fec' io sì aguti, e volta nostra poppa nel mattino, Tutte le stelle già de l'altro polo Cinque volte racceso e tante casso quando n'apparve una montagna, bruna Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto; Tre volte il fé girar con tutte l'acque; infin che 'l mar fu sovra noi richiuso». Inferno: Canto XXVII (indice)[Canto XXVII, dove tratta di que' medesimi aguatatori e falsi consiglieri d'inganni in persona del conte Guido da Montefeltro.] Già era dritta in sù la fiamma e queta quand' un'altra, che dietro a lei venìa, Come 'l bue cicilian che mugghiò prima mugghiava con la voce de l'afflitto, così, per non aver via né forame Ma poscia ch'ebber colto lor vïaggio udimmo dire: «O tu a cu' io drizzo perch' io sia giunto forse alquanto tardo, Se tu pur mo in questo mondo cieco dimmi se Romagnuoli han pace o guerra; Io era in giuso ancora attento e chino, E io, ch'avea già pronta la risposta, Romagna tua non è, e non fu mai, Ravenna sta come stata è molt' anni: La terra che fé già la lunga prova E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio, Le città di Lamone e di Santerno E quella cu' il Savio bagna il fianco, Ora chi se', ti priego che ne conte; Poscia che 'l foco alquanto ebbe rugghiato «S'i' credesse che mia risposta fosse ma però che già mai di questo fondo Io fui uom d'arme, e poi fui cordigliero, se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!, Mentre ch'io forma fui d'ossa e di polpe Li accorgimenti e le coperte vie Quando mi vidi giunto in quella parte ciò che pria mi piacëa, allor m'increbbe, Lo principe d'i novi Farisei, ché ciascun suo nimico era Cristiano, né sommo officio né ordini sacri Ma come Costantin chiese Silvestro a guerir de la sua superba febbre; E' poi ridisse: "Tuo cuor non sospetti; Lo ciel poss' io serrare e diserrare, Allor mi pinser li argomenti gravi di quel peccato ov' io mo cader deggio, Francesco venne poi, com' io fu' morto, Venir se ne dee giù tra ' miei meschini ch'assolver non si può chi non si pente, Oh me dolente! come mi riscossi A Minòs mi portò; e quelli attorse disse: "Questi è d'i rei del foco furo"; Quand' elli ebbe 'l suo dir così compiuto, Noi passamm' oltre, e io e 'l duca mio, a quei che scommettendo acquistan carco. Inferno: Canto XXVIII (indice)[Canto XXVIII, nel quale tratta le qualitadi de la nona bolgia, dove l'auttore vide punire coloro che commisero scandali, e' seminatori di scisma e discordia e d'ogne altro male operare.] Chi poria mai pur con parole sciolte Ogne lingua per certo verria meno S'el s'aunasse ancor tutta la gente per li Troiani e per la lunga guerra con quella che sentio di colpi doglie a Ceperan, là dove fu bugiardo e qual forato suo membro e qual mozzo Già veggia, per mezzul perdere o lulla, Tra le gambe pendevan le minugia; Mentre che tutto in lui veder m'attacco, vedi come storpiato è Maometto! E tutti li altri che tu vedi qui, Un diavolo è qua dietro che n'accisma quand' avem volta la dolente strada; Ma tu chi se' che 'n su lo scoglio muse, «Né morte 'l giunse ancor, né colpa 'l mena», a me, che morto son, convien menarlo Più fuor di cento che, quando l'udiro, «Or dì a fra Dolcin dunque che s'armi, sì di vivanda, che stretta di neve Poi che l'un piè per girsene sospese, Un altro, che forata avea la gola ristato a riguardar per maraviglia e disse: «O tu cui colpa non condanna rimembriti di Pier da Medicina, E fa saper a' due miglior da Fano, gittati saran fuor di lor vasello Tra l'isola di Cipri e di Maiolica Quel traditor che vede pur con l'uno, farà venirli a parlamento seco; E io a lui: «Dimostrami e dichiara, Allor puose la mano a la mascella Questi, scacciato, il dubitar sommerse Oh quanto mi pareva sbigottito E un ch'avea l'una e l'altra man mozza, gridò: «Ricordera'ti anche del Mosca, E io li aggiunsi: «E morte di tua schiatta»; Ma io rimasi a riguardar lo stuolo, se non che coscïenza m'assicura, Io vidi certo, e ancor par ch'io 'l veggia, e 'l capo tronco tenea per le chiome, Di sé facea a sé stesso lucerna, Quando diritto al piè del ponte fue, che fuoro: «Or vedi la pena molesta, E perché tu di me novella porti, Io feci il padre e 'l figlio in sé ribelli; Perch' io parti' così giunte persone, Così s'osserva in me lo contrapasso». Inferno: Canto XXIX (indice)[Canto XXIX, ove tratta de la decima bolgia, dove si puniscono i falsi fabricatori di qualunque opera, e isgrida e riprende l'autore i Sanesi.] La molta gente e le diverse piaghe Ma Virgilio mi disse: «Che pur guate? Tu non hai fatto sì a l'altre bolge; E già la luna è sotto i nostri piedi; «Se tu avessi», rispuos' io appresso, Parte sen giva, e io retro li andava, dov' io tenea or li occhi sì a posta, Allor disse 'l maestro: «Non si franga ch'io vidi lui a piè del ponticello Tu eri allor sì del tutto impedito «O duca mio, la vïolenta morte fece lui disdegnoso; ond' el sen gio Così parlammo infino al loco primo Quando noi fummo sor l'ultima chiostra lamenti saettaron me diversi, Qual dolor fora, se de li spedali fossero in una fossa tutti 'nsembre, Noi discendemmo in su l'ultima riva giù ver' lo fondo, la 've la ministra Non credo ch'a veder maggior tristizia che li animali, infino al picciol vermo, si ristorar di seme di formiche; Qual sovra 'l ventre e qual sovra le spalle Passo passo andavam sanza sermone, Io vidi due sedere a sé poggiati, e non vidi già mai menare stregghia come ciascun menava spesso il morso e sì traevan giù l'unghie la scabbia, «O tu che con le dita ti dismaglie», dinne s'alcun Latino è tra costoro «Latin siam noi, che tu vedi sì guasti E 'l duca disse: «I' son un che discendo Allor si ruppe lo comun rincalzo; Lo buon maestro a me tutto s'accolse, «Se la vostra memoria non s'imboli ditemi chi voi siete e di che genti; «Io fui d'Arezzo, e Albero da Siena», Vero è ch'i' dissi lui, parlando a gioco: volle ch'i' li mostrassi l'arte; e solo Ma ne l'ultima bolgia de le diece E io dissi al poeta: «Or fu già mai Onde l'altro lebbroso, che m'intese, e Niccolò che la costuma ricca e tra'ne la brigata in che disperse Ma perché sappi chi sì ti seconda sì vedrai ch'io son l'ombra di Capocchio, com' io fui di natura buona scimia». Inferno: Canto XXX (indice)[Canto XXX, ove tratta di quella medesima materia e gente.] Nel tempo che Iunone era crucciata Atamante divenne tanto insano, gridò: «Tendiam le reti, sì ch'io pigli prendendo l'un ch'avea nome Learco, E quando la fortuna volse in basso Ecuba trista, misera e cattiva, del mar si fu la dolorosa accorta, Ma né di Tebe furie né troiane quant' io vidi in due ombre smorte e nude, L'una giunse a Capocchio, e in sul nodo E l'Aretin che rimase, tremando «Oh», diss' io lui, «se l'altro non ti ficchi Ed elli a me: «Quell' è l'anima antica Questa a peccar con esso così venne, per guadagnar la donna de la torma, E poi che i due rabbiosi fuor passati Io vidi un, fatto a guisa di lëuto, La grave idropesì, che sì dispaia faceva lui tener le labbra aperte «O voi che sanz' alcuna pena siete, a la miseria del maestro Adamo; Li ruscelletti che d'i verdi colli sempre mi stanno innanzi, e non indarno, La rigida giustizia che mi fruga Ivi è Romena, là dov' io falsai Ma s'io vedessi qui l'anima trista Dentro c'è l'una già, se l'arrabbiate S'io fossi pur di tanto ancor leggero cercando lui tra questa gente sconcia, Io son per lor tra sì fatta famiglia; E io a lui: «Chi son li due tapini «Qui li trovai - e poi volta non dierno - », L'una è la falsa ch'accusò Gioseppo; E l'un di lor, che si recò a noia Quella sonò come fosse un tamburo; dicendo a lui: «Ancor che mi sia tolto Ond' ei rispuose: «Quando tu andavi E l'idropico: «Tu di' ver di questo: «S'io dissi falso, e tu falsasti il conio», «Ricorditi, spergiuro, del cavallo», «E te sia rea la sete onde ti crepa», Allora il monetier: «Così si squarcia tu hai l'arsura e 'l capo che ti duole, Ad ascoltarli er' io del tutto fisso, Quand' io 'l senti' a me parlar con ira, Qual è colui che suo dannaggio sogna, tal mi fec' io, non possendo parlare, «Maggior difetto men vergogna lava», E fa ragion ch'io ti sia sempre allato, ché voler ciò udire è bassa voglia». Inferno: Canto XXXI (indice)[Canto XXXI, ove tratta de' giganti che guardano il pozzo de l'inferno, ed è il nono cerchio.] Una medesma lingua pria mi morse, così od' io che solea far la lancia Noi demmo il dosso al misero vallone Quiv' era men che notte e men che giorno, tanto ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco, Dopo la dolorosa rotta, quando Poco portäi in là volta la testa, Ed elli a me: «Però che tu trascorri Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi, Poi caramente mi prese per mano sappi che non son torri, ma giganti, Come quando la nebbia si dissipa, così forando l'aura grossa e scura, però che, come su la cerchia tonda torreggiavan di mezza la persona E io scorgeva già d'alcun la faccia, Natura certo, quando lasciò l'arte E s'ella d'elefanti e di balene ché dove l'argomento de la mente La faccia sua mi parea lunga e grossa sì che la ripa, ch'era perizoma tre Frison s'averien dato mal vanto; «Raphèl maì amècche zabì almi», E 'l duca mio ver' lui: «Anima sciocca, Cércati al collo, e troverai la soga Poi disse a me: «Elli stessi s'accusa; Lasciànlo stare e non parliamo a vòto; Facemmo adunque più lungo vïaggio, A cigner lui qual che fosse 'l maestro, d'una catena che 'l tenea avvinto «Questo superbo volle esser esperto Fïalte ha nome, e fece le gran prove E io a lui: «S'esser puote, io vorrei Ond' ei rispuose: «Tu vedrai Anteo Quel che tu vuo' veder, più là è molto Non fu tremoto già tanto rubesto, Allor temett' io più che mai la morte, Noi procedemmo più avante allotta, «O tu che ne la fortunata valle recasti già mille leon per preda, ch'avrebber vinto i figli de la terra: Non ci fare ire a Tizio né a Tifo: Ancor ti può nel mondo render fama, Così disse 'l maestro; e quelli in fretta Virgilio, quando prender si sentio, Qual pare a riguardar la Carisenda tal parve Antëo a me che stava a bada Ma lievemente al fondo che divora e come albero in nave si levò. Inferno: Canto XXXII (indice)[Canto XXXII, nel quale tratta de' traditori di loro schiatta e de' traditori de la loro patria, che sono nel pozzo de l'inferno.] S'ïo avessi le rime aspre e chiocce, io premerei di mio concetto il suco ché non è impresa da pigliare a gabbo Ma quelle donne aiutino il mio verso Oh sovra tutte mal creata plebe Come noi fummo giù nel pozzo scuro dicere udi'mi: «Guarda come passi: Per ch'io mi volsi, e vidimi davante Non fece al corso suo sì grosso velo com' era quivi; che se Tambernicchi E come a gracidar si sta la rana livide, insin là dove appar vergogna Ognuna in giù tenea volta la faccia; Quand' io m'ebbi dintorno alquanto visto, «Ditemi, voi che sì strignete i petti», li occhi lor, ch'eran pria pur dentro molli, Con legno legno spranga mai non cinse E un ch'avea perduti ambo li orecchi Se vuoi saper chi son cotesti due, D'un corpo usciro; e tutta la Caina non quelli a cui fu rotto il petto e l'ombra col capo sì, ch'i' non veggio oltre più, E perché non mi metti in più sermoni, Poscia vid' io mille visi cagnazzi E mentre ch'andavamo inver' lo mezzo se voler fu o destino o fortuna, Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste? E io: «Maestro mio, or qui m'aspetta, Lo duca stette, e io dissi a colui «Or tu chi se' che vai per l'Antenora, «Vivo son io, e caro esser ti puote», Ed elli a me: «Del contrario ho io brama. Allor lo presi per la cuticagna Ond' elli a me: «Perché tu mi dischiomi, Io avea già i capelli in mano avvolti, quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca? «Omai», diss' io, «non vo' che più favelle, «Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta; El piange qui l'argento de' Franceschi: Se fossi domandato "Altri chi v'era?", Gianni de' Soldanier credo che sia Noi eravam partiti già da ello, e come 'l pan per fame si manduca, non altrimenti Tidëo si rose «O tu che mostri per sì bestial segno che se tu a ragion di lui ti piangi, se quella con ch'io parlo non si secca». Inferno: Canto XXXIII (indice)[Canto XXXIII, ove tratta di quelli che tradirono coloro che in loro tutto si fidavano, e coloro da cui erano stati promossi a dignità e grande stato; e riprende qui i Pisani e i Genovesi.] La bocca sollevò dal fiero pasto Poi cominciò: «Tu vuo' ch'io rinovelli Ma se le mie parole esser dien seme Io non so chi tu se' né per che modo Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino, Che per l'effetto de' suo' mai pensieri, però quel che non puoi avere inteso, Breve pertugio dentro da la Muda, m'avea mostrato per lo suo forame Questi pareva a me maestro e donno, Con cagne magre, studïose e conte In picciol corso mi parieno stanchi Quando fui desto innanzi la dimane, Ben se' crudel, se tu già non ti duoli Già eran desti, e l'ora s'appressava e io senti' chiavar l'uscio di sotto Io non piangëa, sì dentro impetrai: Perciò non lagrimai né rispuos' io Come un poco di raggio si fu messo ambo le man per lo dolor mi morsi; e disser: "Padre, assai ci fia men doglia Queta'mi allor per non farli più tristi; Poscia che fummo al quarto dì venuti, Quivi morì; e come tu mi vedi, già cieco, a brancolar sovra ciascuno, Quand' ebbe detto ciò, con li occhi torti Ahi Pisa, vituperio de le genti muovasi la Capraia e la Gorgona, Che se 'l conte Ugolino aveva voce Innocenti facea l'età novella, Noi passammo oltre, là 've la gelata Lo pianto stesso lì pianger non lascia, ché le lagrime prime fanno groppo, E avvegna che, sì come d'un callo, già mi parea sentire alquanto vento; Ond' elli a me: «Avaccio sarai dove E un de' tristi de la fredda crosta levatemi dal viso i duri veli, Per ch'io a lui: «Se vuo' ch'i' ti sovvegna, Rispuose adunque: «I' son frate Alberigo; «Oh», diss' io lui, «or se' tu ancor morto?». Cotal vantaggio ha questa Tolomea, E perché tu più volentier mi rade come fec' ïo, il corpo suo l'è tolto Ella ruina in sì fatta cisterna; Tu 'l dei saper, se tu vien pur mo giuso: «Io credo», diss' io lui, «che tu m'inganni; «Nel fosso sù», diss' el, «de' Malebranche, che questi lasciò il diavolo in sua vece Ma distendi oggimai in qua la mano; Ahi Genovesi, uomini diversi Ché col peggiore spirto di Romagna e in corpo par vivo ancor di sopra. Inferno: Canto XXXIV (indice)[Canto XXXIV e ultimo de la prima cantica di Dante Alleghieri di Fiorenza, nel qual canto tratta di Belzebù principe de' dimoni e de' traditori di loro signori, e narra come uscie de l'inferno.] «Vexilla regis prodeunt inferni Come quando una grossa nebbia spira, veder mi parve un tal dificio allotta; Già era, e con paura il metto in metro, Altre sono a giacere; altre stanno erte, Quando noi fummo fatti tanto avante, d'innanzi mi si tolse e fé restarmi, Com' io divenni allor gelato e fioco, Io non mori' e non rimasi vivo; Lo 'mperador del doloroso regno che i giganti non fan con le sue braccia: S'el fu sì bel com' elli è ora brutto, Oh quanto parve a me gran maraviglia l'altr' eran due, che s'aggiugnieno a questa e la destra parea tra bianca e gialla; Sotto ciascuna uscivan due grand' ali, Non avean penne, ma di vispistrello quindi Cocito tutto s'aggelava. Da ogne bocca dirompea co' denti A quel dinanzi il mordere era nulla «Quell' anima là sù c'ha maggior pena», De li altri due c'hanno il capo di sotto, e l'altro è Cassio, che par sì membruto. Com' a lui piacque, il collo li avvinghiai; appigliò sé a le vellute coste; Quando noi fummo là dove la coscia volse la testa ov' elli avea le zanche, «Attienti ben, ché per cotali scale», Poi uscì fuor per lo fóro d'un sasso Io levai li occhi e credetti vedere e s'io divenni allora travagliato, «Lèvati sù», disse 'l maestro, «in piede: Non era camminata di palagio «Prima ch'io de l'abisso mi divella, ov' è la ghiaccia? e questi com' è fitto Ed elli a me: «Tu imagini ancora Di là fosti cotanto quant' io scesi; E se' or sotto l'emisperio giunto fu l'uom che nacque e visse sanza pecca; Qui è da man, quando di là è sera; Da questa parte cadde giù dal cielo; e venne a l'emisperio nostro; e forse Luogo è là giù da Belzebù remoto d'un ruscelletto che quivi discende Lo duca e io per quel cammino ascoso salimmo sù, el primo e io secondo, E quindi uscimmo a riveder le stelle. [Explicit prima pars Comedie Dantis Alagherii |
PurgatorioPurgatorio: Canto I (indice)[Comincia la seconda parte overo cantica de la Comedia di Dante Allaghieri di Firenze, ne la quale parte si purgano li commessi peccati e vizi de' quali l'uomo è confesso e pentuto con animo di sodisfazione; e contiene XXXIII canti. Qui sono quelli che sperano di venire quando che sia a le beate genti.] Per correr miglior acque alza le vele e canterò di quel secondo regno Ma qui la morta poesì resurga, seguitando il mio canto con quel suono Dolce color d'orïental zaffiro, a li occhi miei ricominciò diletto, Lo bel pianeto che d'amar conforta I' mi volsi a man destra, e puosi mente Goder pareva 'l ciel di lor fiammelle: Com' io da loro sguardo fui partito, vidi presso di me un veglio solo, Lunga la barba e di pel bianco mista Li raggi de le quattro luci sante «Chi siete voi che contro al cieco fiume «Chi v'ha guidati, o che vi fu lucerna, Son le leggi d'abisso così rotte? Lo duca mio allor mi diè di piglio, Poscia rispuose lui: «Da me non venni: Ma da ch'è tuo voler che più si spieghi Questi non vide mai l'ultima sera; Sì com' io dissi, fui mandato ad esso Mostrata ho lui tutta la gente ria; Com' io l'ho tratto, saria lungo a dirti; Or ti piaccia gradir la sua venuta: Tu 'l sai, ché non ti fu per lei amara Non son li editti etterni per noi guasti, di Marzia tua, che 'n vista ancor ti priega, Lasciane andar per li tuoi sette regni; «Marzïa piacque tanto a li occhi miei Or che di là dal mal fiume dimora, Ma se donna del ciel ti move e regge, Va dunque, e fa che tu costui ricinghe ché non si converria, l'occhio sorpriso Questa isoletta intorno ad imo ad imo, null' altra pianta che facesse fronda Poscia non sia di qua vostra reddita; Così sparì; e io sù mi levai El cominciò: «Figliuol, segui i miei passi: L'alba vinceva l'ora mattutina Noi andavam per lo solingo piano Quando noi fummo là 've la rugiada ambo le mani in su l'erbetta sparte porsi ver' lui le guance lagrimose; Venimmo poi in sul lito diserto, Quivi mi cinse sì com' altrui piacque: subitamente là onde l'avelse. Purgatorio: Canto II (indice)[Canto secondo, nel quale tratta de la prima qualitade cioè dilettazione di vanitade, nel quale peccato inviluppati sono puniti proprio fuori del purgatorio in uno piano, e in persona di costoro nomina il Casella, uomo di corte.] Già era 'l sole a l'orizzonte giunto e la notte, che opposita a lui cerchia, sì che le bianche e le vermiglie guance, Noi eravam lunghesso mare ancora, Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino, cotal m'apparve, s'io ancor lo veggia, Dal qual com' io un poco ebbi ritratto Poi d'ogne lato ad esso m'appario Lo mio maestro ancor non facea motto, gridò: «Fa, fa che le ginocchia cali. Vedi che sdegna li argomenti umani, Vedi come l'ha dritte verso 'l cielo, Poi, come più e più verso noi venne ma chinail giuso; e quei sen venne a riva Da poppa stava il celestial nocchiero, 'In exitu Isräel de Aegypto' Poi fece il segno lor di santa croce; La turba che rimase lì, selvaggia Da tutte parti saettava il giorno quando la nova gente alzò la fronte E Virgilio rispuose: «Voi credete Dianzi venimmo, innanzi a voi un poco, L'anime, che si fuor di me accorte, E come a messagger che porta ulivo così al viso mio s'affisar quelle Io vidi una di lor trarresi avante Ohi ombre vane, fuor che ne l'aspetto! Di maraviglia, credo, mi dipinsi; Soavemente disse ch'io posasse; Rispuosemi: «Così com' io t'amai «Casella mio, per tornar altra volta Ed elli a me: «Nessun m'è fatto oltraggio, ché di giusto voler lo suo si face: Ond' io, ch'era ora a la marina vòlto A quella foce ha elli or dritta l'ala, E io: «Se nuova legge non ti toglie di ciò ti piaccia consolare alquanto 'Amor che ne la mente mi ragiona' Lo mio maestro e io e quella gente Noi eravam tutti fissi e attenti qual negligenza, quale stare è questo? Come quando, cogliendo biado o loglio, se cosa appare ond' elli abbian paura, così vid' io quella masnada fresca né la nostra partita fu men tosta. Purgatorio: Canto III (indice)[Canto III, nel quale si tratta de la seconda qualitade, cioè di coloro che per cagione d'alcuna violenza che ricevettero, tardaro di qui a loro fine a pentersi e confessarsi de' loro falli, sì come sono quelli che muoiono in contumacia di Santa Chiesa scomunicati, li quali sono puniti in quel piano. In essempro di cotali peccatori nomina tra costoro il re Manfredi.] Avvegna che la subitana fuga i' mi ristrinsi a la fida compagna: El mi parea da sé stesso rimorso: Quando li piedi suoi lasciar la fretta, lo 'ntento rallargò, sì come vaga, Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio, Io mi volsi dallato con paura e 'l mio conforto: «Perché pur diffidi?», Vespero è già colà dov' è sepolto Ora, se innanzi a me nulla s'aombra, A sofferir tormenti, caldi e geli Matto è chi spera che nostra ragione State contenti, umana gente, al quia; e disïar vedeste sanza frutto io dico d'Aristotile e di Plato Noi divenimmo intanto a piè del monte; Tra Lerice e Turbìa la più diserta, «Or chi sa da qual man la costa cala», E mentre ch'e' tenendo 'l viso basso da man sinistra m'apparì una gente «Leva», diss' io, «maestro, li occhi tuoi: Guardò allora, e con libero piglio Ancora era quel popol di lontano, quando si strinser tutti ai duri massi «O ben finiti, o già spiriti eletti», ditene dove la montagna giace, Come le pecorelle escon del chiuso e ciò che fa la prima, e l'altre fanno, sì vid' io muovere a venir la testa Come color dinanzi vider rotta restaro, e trasser sé in dietro alquanto, «Sanza vostra domanda io vi confesso Non vi maravigliate, ma credete Così 'l maestro; e quella gente degna E un di loro incominciò: «Chiunque Io mi volsi ver' lui e guardail fiso: Quand' io mi fui umilmente disdetto Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi, vadi a mia bella figlia, genitrice Poscia ch'io ebbi rotta la persona Orribil furon li peccati miei; Se 'l pastor di Cosenza, che a la caccia l'ossa del corpo mio sarieno ancora Or le bagna la pioggia e move il vento Per lor maladizion sì non si perde, Vero è che quale in contumacia more per ognun tempo ch'elli è stato, trenta, Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto, ché qui per quei di là molto s'avanza». Purgatorio: Canto IV (indice)[Canto IV, dove si tratta de la soprascritta seconda qualitade, dove si purga chi per negligenza di qui a la morte si tardòe a confessare; tra i quali si nomina il Belacqua, uomo di corte.] Quando per dilettanze o ver per doglie, par ch'a nulla potenza più intenda; E però, quando s'ode cosa o vede ch'altra potenza è quella che l'ascolta, Di ciò ebb' io esperïenza vera, lo sole, e io non m'era accorto, quando Maggiore aperta molte volte impruna che non era la calla onde salìne Vassi in Sanleo e discendesi in Noli, dico con l'ale snelle e con le piume Noi salavam per entro 'l sasso rotto, Poi che noi fummo in su l'orlo suppremo Ed elli a me: «Nessun tuo passo caggia; Lo sommo er' alto che vincea la vista, Io era lasso, quando cominciai: «Figliuol mio», disse, «infin quivi ti tira», Sì mi spronaron le parole sue, A seder ci ponemmo ivi ambedui Li occhi prima drizzai ai bassi liti; Ben s'avvide il poeta ch'ïo stava Ond' elli a me: «Se Castore e Poluce tu vedresti il Zodïaco rubecchio Come ciò sia, se 'l vuoi poter pensare, sì, ch'amendue hanno un solo orizzòn vedrai come a costui convien che vada «Certo, maestro mio», diss' io, «unquanco che 'l mezzo cerchio del moto superno, per la ragion che di', quinci si parte Ma se a te piace, volontier saprei Ed elli a me: «Questa montagna è tale, Però, quand' ella ti parrà soave allor sarai al fin d'esto sentiero; E com' elli ebbe sua parola detta, Al suon di lei ciascun di noi si torse, Là ci traemmo; e ivi eran persone E un di lor, che mi sembiava lasso, «O dolce segnor mio», diss' io, «adocchia Allor si volse a noi e puose mente, Conobbi allor chi era, e quella angoscia ch'a lui fu' giunto, alzò la testa a pena, Li atti suoi pigri e le corte parole di te omai; ma dimmi: perché assiso Ed elli: «O frate, andar in sù che porta? Prima convien che tanto il ciel m'aggiri se orazïone in prima non m'aita E già il poeta innanzi mi saliva, cuopre la notte già col piè Morrocco». Purgatorio: Canto V (indice)[Canto V, ove si tratta de la terza qualitade, cioè di coloro che per cagione di vendicarsi d'alcuna ingiuria insino a la morte mettono in non calere di riconoscere sé esser peccatori e soddisfare a Dio; de li quali nomina in persona messer Iacopo di Fano e Bonconte di Montefeltro.] Io era già da quell' ombre partito, una gridò: «Ve' che non par che luca Li occhi rivolsi al suon di questo motto, «Perché l'animo tuo tanto s'impiglia», Vien dietro a me, e lascia dir le genti: ché sempre l'omo in cui pensier rampolla Che potea io ridir, se non «Io vegno»? E 'ntanto per la costa di traverso Quando s'accorser ch'i' non dava loco e due di loro, in forma di messaggi, E 'l mio maestro: «Voi potete andarne Se per veder la sua ombra restaro, Vapori accesi non vid' io sì tosto che color non tornasser suso in meno; «Questa gente che preme a noi è molta, «O anima che vai per esser lieta Guarda s'alcun di noi unqua vedesti, Noi fummo tutti già per forza morti, sì che, pentendo e perdonando, fora E io: «Perché ne' vostri visi guati, voi dite, e io farò per quella pace E uno incominciò: «Ciascun si fida Ond' io, che solo innanzi a li altri parlo, che tu mi sie di tuoi prieghi cortese Quindi fu' io; ma li profondi fóri là dov' io più sicuro esser credea: Ma s'io fosse fuggito inver' la Mira, Corsi al palude, e le cannucce e 'l braco Poi disse un altro: «Deh, se quel disio Io fui di Montefeltro, io son Bonconte; E io a lui: «Qual forza o qual ventura «Oh!», rispuos' elli, «a piè del Casentino Là 've 'l vocabol suo diventa vano, Quivi perdei la vista e la parola; Io dirò vero, e tu 'l ridì tra ' vivi: Tu te ne porti di costui l'etterno Ben sai come ne l'aere si raccoglie Giunse quel mal voler che pur mal chiede Indi la valle, come 'l dì fu spento, sì che 'l pregno aere in acqua si converse; e come ai rivi grandi si convenne, Lo corpo mio gelato in su la foce ch'i' fe' di me quando 'l dolor mi vinse; «Deh, quando tu sarai tornato al mondo «ricorditi di me, che son la Pia; disposando m'avea con la sua gemma». Purgatorio: Canto VI (indice)[Canto VI, dove si tratta di quella medesima qualitade, dove si purga la predetta mala volontà di vendicare la 'ngiuria, e per questo si ritarda sua confessione, e dove truova e nomina Sordella da Mantua.] Quando si parte il gioco de la zara, con l'altro se ne va tutta la gente; el non s'arresta, e questo e quello intende; Tal era io in quella turba spessa, Quiv' era l'Aretin che da le braccia Quivi pregava con le mani sporte Vidi conte Orso e l'anima divisa Pier da la Broccia dico; e qui proveggia, Come libero fui da tutte quante io cominciai: «El par che tu mi nieghi, e questa gente prega pur di questo: Ed elli a me: «La mia scrittura è piana; ché cima di giudicio non s'avvalla e là dov' io fermai cotesto punto, Veramente a così alto sospetto Non so se 'ntendi: io dico di Beatrice; E io: «Segnore, andiamo a maggior fretta, «Noi anderem con questo giorno innanzi», Prima che sie là sù, tornar vedrai Ma vedi là un'anima che, posta Venimmo a lei: o anima lombarda, Ella non ci dicëa alcuna cosa, Pur Virgilio si trasse a lei, pregando ma di nostro paese e de la vita surse ver' lui del loco ove pria stava, Ahi serva Italia, di dolore ostello, Quell' anima gentil fu così presta, e ora in te non stanno sanza guerra Cerca, misera, intorno da le prode Che val perché ti racconciasse il freno Ahi gente che dovresti esser devota, guarda come esta fiera è fatta fella O Alberto tedesco ch'abbandoni giusto giudicio da le stelle caggia Ch'avete tu e 'l tuo padre sofferto, Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura Vieni a veder la tua Roma che piagne Vieni a veder la gente quanto s'ama! E se licito m'è, o sommo Giove O è preparazion che ne l'abisso Ché le città d'Italia tutte piene Fiorenza mia, ben puoi esser contenta Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca Molti rifiutan lo comune incarco; Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde: Atene e Lacedemona, che fenno verso di te, che fai tanto sottili Quante volte, del tempo che rimembre, E se ben ti ricordi e vedi lume, ma con dar volta suo dolore scherma. Purgatorio: Canto VII (indice)[Canto VII, dove si purga la quarta qualitade di coloro che, per propria negligenza, di die in die di qui all'ultimo giorno di loro vita tardaro indebitamente loro confessione; li quali si purgano in uno vallone intra fiori ed erbe; dove nomina il re Carlo e molti altri.] Poscia che l'accoglienze oneste e liete «Anzi che a questo monte fosser volte Io son Virgilio; e per null' altro rio Qual è colui che cosa innanzi sé tal parve quelli; e poi chinò le ciglia, «O gloria di Latin», disse, «per cui qual merito o qual grazia mi ti mostra? «Per tutt' i cerchi del dolente regno», Non per far, ma per non fare ho perduto Luogo è là giù non tristo di martìri, Quivi sto io coi pargoli innocenti quivi sto io con quei che le tre sante Ma se tu sai e puoi, alcuno indizio Rispuose: «Loco certo non c'è posto; Ma vedi già come dichina il giorno, Anime sono a destra qua remote; «Com' è ciò?», fu risposto. «Chi volesse E 'l buon Sordello in terra fregò 'l dito, non però ch'altra cosa desse briga, Ben si poria con lei tornare in giuso Allora il mio segnor, quasi ammirando, Poco allungati c'eravam di lici, «Colà», disse quell' ombra, «n'anderemo Tra erto e piano era un sentiero schembo, Oro e argento fine, cocco e biacca, da l'erba e da li fior, dentr' a quel seno Non avea pur natura ivi dipinto, 'Salve, Regina' in sul verde e 'n su' fiori «Prima che 'l poco sole omai s'annidi», Di questo balzo meglio li atti e ' volti Colui che più siede alto e fa sembianti Rodolfo imperador fu, che potea L'altro che ne la vista lui conforta, Ottacchero ebbe nome, e ne le fasce E quel nasetto che stretto a consiglio guardate là come si batte il petto! Padre e suocero son del mal di Francia: Quel che par sì membruto e che s'accorda, e se re dopo lui fosse rimaso che non si puote dir de l'altre rede; Rade volte risurge per li rami Anche al nasuto vanno mie parole Tant' è del seme suo minor la pianta, Vedete il re de la semplice vita Quel che più basso tra costor s'atterra, fa pianger Monferrato e Canavese». Purgatorio: Canto VIII (indice)[Canto VIII, dove si tratta de la quinta qualitade, cioè di coloro che, per timore di non perdere onore e signoria e offizi e massimalmente per non ritrarre le mani da l'utilità de la pecunia, si tardaro a confessare di qui a l'ultima ora di loro vita e non facendo penitenza di lor peccati; dove nomina iudice Nino e Currado marchese Malespini.] Era già l'ora che volge il disio e che lo novo peregrin d'amore quand' io incominciai a render vano Ella giunse e levò ambo le palme, 'Te lucis ante' sì devotamente e l'altre poi dolcemente e devote Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, Io vidi quello essercito gentile e vidi uscir de l'alto e scender giùe Verdi come fogliette pur mo nate L'un poco sovra noi a star si venne, Ben discernëa in lor la testa bionda; «Ambo vegnon del grembo di Maria», Ond' io, che non sapeva per qual calle, E Sordello anco: «Or avvalliamo omai Solo tre passi credo ch'i' scendesse, Temp' era già che l'aere s'annerava, Ver' me si fece, e io ver' lui mi fei: Nullo bel salutar tra noi si tacque; «Oh!», diss' io lui, «per entro i luoghi tristi E come fu la mia risposta udita, L'uno a Virgilio e l'altro a un si volse Poi, vòlto a me: «Per quel singular grado quando sarai di là da le larghe onde, Non credo che la sua madre più m'ami, Per lei assai di lieve si comprende Non le farà sì bella sepultura Così dicea, segnato de la stampa, Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo, E 'l duca mio: «Figliuol, che là sù guarde?». Ond' elli a me: «Le quattro chiare stelle Com' ei parlava, e Sordello a sé il trasse Da quella parte onde non ha riparo Tra l'erba e ' fior venìa la mala striscia, Io non vidi, e però dicer non posso, Sentendo fender l'aere a le verdi ali, L'ombra che s'era al giudice raccolta «Se la lucerna che ti mena in alto cominciò ella, «se novella vera Fui chiamato Currado Malaspina; «Oh!», diss' io lui, «per li vostri paesi La fama che la vostra casa onora, e io vi giuro, s'io di sopra vada, Uso e natura sì la privilegia, Ed elli: «Or va; che 'l sol non si ricorca che cotesta cortese oppinïone se corso di giudicio non s'arresta». Purgatorio: Canto IX (indice)[Canto IX, nel quale pone l'auttore uno suo significativo sogno; e poi come pervennero a l'entrata del purgatorio proprio, descrivendo come ne l'entrata di purgatorio trovoe uno angelo che con la punta de la spada che portava in mano scrisse ne la fronte di Dante sette P.] La concubina di Titone antico di gemme la sua fronte era lucente, e la notte, de' passi con che sale, quand' io, che meco avea di quel d'Adamo, Ne l'ora che comincia i tristi lai e che la mente nostra, peregrina in sogno mi parea veder sospesa ed esser mi parea là dove fuoro Fra me pensava: 'Forse questa fiede Poi mi parea che, poi rotata un poco, Ivi parea che ella e io ardesse; Non altrimenti Achille si riscosse, quando la madre da Chirón a Schiro che mi scoss' io, sì come da la faccia Dallato m'era solo il mio conforto, «Non aver tema», disse il mio segnore; Tu se' omai al purgatorio giunto: Dianzi, ne l'alba che procede al giorno, venne una donna, e disse: "I' son Lucia; Sordel rimase e l'altre genti forme; Qui ti posò, ma pria mi dimostraro A guisa d'uom che 'n dubbio si raccerta mi cambia' io; e come sanza cura Lettor, tu vedi ben com' io innalzo Noi ci appressammo, ed eravamo in parte vidi una porta, e tre gradi di sotto E come l'occhio più e più v'apersi, e una spada nuda avëa in mano, «Dite costinci: che volete voi?», «Donna del ciel, di queste cose accorta», «Ed ella i passi vostri in bene avanzi», Là ne venimmo; e lo scaglion primaio Era il secondo tinto più che perso, Lo terzo, che di sopra s'ammassiccia, Sovra questo tenëa ambo le piante Per li tre gradi sù di buona voglia Divoto mi gittai a' santi piedi; Sette P ne la fronte mi descrisse Cenere, o terra che secca si cavi, L'una era d'oro e l'altra era d'argento; «Quandunque l'una d'este chiavi falla, Più cara è l'una; ma l'altra vuol troppa Da Pier le tegno; e dissemi ch'i' erri Poi pinse l'uscio a la porta sacrata, E quando fuor ne' cardini distorti non rugghiò sì né si mostrò sì acra Io mi rivolsi attento al primo tuono, Tale imagine a punto mi rendea ch'or sì or no s'intendon le parole. Purgatorio: Canto X (indice)[Canto X, dove si tratta del primo girone del proprio purgatorio, il quale luogo discrive l'auttore sotto certi intagli d'antiche imagini; e qui si purga la colpa de la superbia.] Poi fummo dentro al soglio de la porta sonando la senti' esser richiusa; Noi salavam per una pietra fessa, «Qui si conviene usare un poco d'arte», E questo fece i nostri passi scarsi, che noi fossimo fuor di quella cruna; ïo stancato e amendue incerti Da la sua sponda, ove confina il vano, e quanto l'occhio mio potea trar d'ale, Là sù non eran mossi i piè nostri anco, esser di marmo candido e addorno L'angel che venne in terra col decreto dinanzi a noi pareva sì verace Giurato si saria ch'el dicesse 'Ave!'; e avea in atto impressa esta favella «Non tener pur ad un loco la mente», Per ch'i' mi mossi col viso, e vedea un'altra storia ne la roccia imposta; Era intagliato lì nel marmo stesso Dinanzi parea gente; e tutta quanta, Similemente al fummo de li 'ncensi Lì precedeva al benedetto vaso, Di contra, effigïata ad una vista I' mossi i piè del loco dov' io stava, Quiv' era storïata l'alta gloria i' dico di Traiano imperadore; Intorno a lui parea calcato e pieno La miserella intra tutti costoro ed elli a lei rispondere: «Or aspetta «se tu non torni?»; ed ei: «Chi fia dov' io, ond' elli: «Or ti conforta; ch'ei convene Colui che mai non vide cosa nova Mentr' io mi dilettava di guardare «Ecco di qua, ma fanno i passi radi», Li occhi miei, ch'a mirare eran contenti Non vo' però, lettor, che tu ti smaghi Non attender la forma del martìre: Io cominciai: «Maestro, quel ch'io veggio Ed elli a me: «La grave condizione Ma guarda fiso là, e disviticchia O superbi cristian, miseri lassi, non v'accorgete voi che noi siam vermi Di che l'animo vostro in alto galla, Come per sostentar solaio o tetto, la qual fa del non ver vera rancura Vero è che più e meno eran contratti piangendo parea dicer: 'Più non posso'. Purgatorio: Canto XI (indice)[Canto XI, nel quale si tratta del sopradetto primo girone e de' superbi medesimi, e qui si purga la vana gloria ch'è uno de' rami de la superbia; dove nomina il conte Uberto da Santafiore e messer Provenzano Salvani di Siena e molti altri.] «O Padre nostro, che ne' cieli stai, laudato sia 'l tuo nome e 'l tuo valore Vegna ver' noi la pace del tuo regno, Come del suo voler li angeli tuoi Dà oggi a noi la cotidiana manna, E come noi lo mal ch'avem sofferto Nostra virtù che di legger s'adona, Quest' ultima preghiera, segnor caro, Così a sé e noi buona ramogna disparmente angosciate tutte a tondo Se di là sempre ben per noi si dice, Ben si de' loro atar lavar le note «Deh, se giustizia e pietà vi disgrievi mostrate da qual mano inver' la scala ché questi che vien meco, per lo 'ncarco Le lor parole, che rendero a queste ma fu detto: «A man destra per la riva E s'io non fossi impedito dal sasso cotesti, ch'ancor vive e non si noma, Io fui latino e nato d'un gran Tosco: L'antico sangue e l'opere leggiadre ogn' uomo ebbi in despetto tanto avante, Io sono Omberto; e non pur a me danno E qui convien ch'io questo peso porti Ascoltando chinai in giù la faccia; e videmi e conobbemi e chiamava, «Oh!», diss' io lui, «non se' tu Oderisi, «Frate», diss' elli, «più ridon le carte Ben non sare' io stato sì cortese Di tal superbia qui si paga il fio; Oh vana gloria de l'umane posse! Credette Cimabue ne la pittura Così ha tolto l'uno a l'altro Guido Non è il mondan romore altro ch'un fiato Che voce avrai tu più, se vecchia scindi pria che passin mill' anni? ch'è più corto Colui che del cammin sì poco piglia ond' era sire quando fu distrutta La vostra nominanza è color d'erba, E io a lui: «Tuo vero dir m'incora «Quelli è», rispuose, «Provenzan Salvani; Ito è così e va, sanza riposo, E io: «Se quello spirito ch'attende, se buona orazïon lui non aita, «Quando vivea più glorïoso», disse, e lì, per trar l'amico suo di pena, Più non dirò, e scuro so che parlo; Quest' opera li tolse quei confini». Purgatorio: Canto XII (indice)[Canto XII, ove si tratta del secondo girone dove si sono intagliate certe imagini antiche de' superbi; e quivi si puniscono li superbi medesimi.] Di pari, come buoi che vanno a giogo, Ma quando disse: «Lascia lui e varca; dritto sì come andar vuolsi rife'mi Io m'era mosso, e seguia volontieri ed el mi disse: «Volgi li occhi in giùe: Come, perché di lor memoria sia, onde lì molte volte si ripiagne sì vid' io lì, ma di miglior sembianza Vedea colui che fu nobil creato Vedëa Brïareo fitto dal telo Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte, Vedea Nembròt a piè del gran lavoro O Nïobè, con che occhi dolenti O Saùl, come in su la propria spada O folle Aragne, sì vedea io te O Roboàm, già non par che minacci Mostrava ancor lo duro pavimento Mostrava come i figli si gittaro Mostrava la ruina e 'l crudo scempio Mostrava come in rotta si fuggiro Vedeva Troia in cenere e in caverne; Qual di pennel fu maestro o di stile Morti li morti e i vivi parean vivi: Or superbite, e via col viso altero, Più era già per noi del monte vòlto quando colui che sempre innanzi atteso Vedi colà un angel che s'appresta Di reverenza il viso e li atti addorna, Io era ben del suo ammonir uso A noi venìa la creatura bella, Le braccia aperse, e indi aperse l'ale; A questo invito vegnon molto radi: Menocci ove la roccia era tagliata; Come a man destra, per salire al monte si rompe del montar l'ardita foga così s'allenta la ripa che cade Noi volgendo ivi le nostre persone, Ahi quanto son diverse quelle foci Già montavam su per li scaglion santi, Ond' io: «Maestro, dì, qual cosa greve Rispuose: «Quando i P che son rimasi fier li tuoi piè dal buon voler sì vinti, Allor fec' io come color che vanno per che la mano ad accertar s'aiuta, e con le dita de la destra scempie a che guardando, il mio duca sorrise. Purgatorio: Canto XIII (indice)[Canto XIII, dove si tratta del sopradetto girone secondo, e quivi si punisce la colpa della invidia; dove nomina madonna Sapìa, moglie di messer Viviano de' Ghinibaldi da Siena, e molti altri.] Noi eravamo al sommo de la scala, Ivi così una cornice lega Ombra non lì è né segno che si paia: «Se qui per dimandar gente s'aspetta», Poi fisamente al sole li occhi porse; «O dolce lume a cui fidanza i' entro Tu scaldi il mondo, tu sovr' esso luci; Quanto di qua per un migliaio si conta, e verso noi volar furon sentiti, La prima voce che passò volando E prima che del tutto non si udisse «Oh!», diss' io, «padre, che voci son queste?». E 'l buon maestro: «Questo cinghio sferza Lo fren vuol esser del contrario suono; Ma ficca li occhi per l'aere ben fiso, Allora più che prima li occhi apersi; E poi che fummo un poco più avanti, Non credo che per terra vada ancoi ché, quando fui sì presso di lor giunto, Di vil ciliccio mi parean coperti, Così li ciechi a cui la roba falla, perché 'n altrui pietà tosto si pogna, E come a li orbi non approda il sole, ché a tutti un fil di ferro i cigli fóra A me pareva, andando, fare oltraggio, Ben sapev' ei che volea dir lo muto; Virgilio mi venìa da quella banda da l'altra parte m'eran le divote Volsimi a loro e: «O gente sicura», se tosto grazia resolva le schiume ditemi, ché mi fia grazioso e caro, «O frate mio, ciascuna è cittadina Questo mi parve per risposta udire Tra l'altre vidi un'ombra ch'aspettava «Spirto», diss' io, «che per salir ti dome, «Io fui sanese», rispuose, «e con questi Savia non fui, avvegna che Sapìa E perché tu non creda ch'io t'inganni, Eran li cittadin miei presso a Colle Rotti fuor quivi e vòlti ne li amari tanto ch'io volsi in sù l'ardita faccia, Pace volli con Dio in su lo stremo se ciò non fosse, ch'a memoria m'ebbe Ma tu chi se', che nostre condizioni «Li occhi», diss' io, «mi fieno ancor qui tolti, Troppa è più la paura ond' è sospesa Ed ella a me: «Chi t'ha dunque condotto E vivo sono; e però mi richiedi, «Oh, questa è a udir sì cosa nuova», E cheggioti, per quel che tu più brami, Tu li vedrai tra quella gente vana ma più vi perderanno li ammiragli». Purgatorio: Canto XIV (indice)[Canto XIV, dove si tratta del sopradetto girone, e qui si purga la sopradetta colpa della invidia; dove nomina messer Rinieri da Calvoli e molti altri.] «Chi è costui che 'l nostro monte cerchia «Non so chi sia, ma so ch'e' non è solo; Così due spirti, l'uno a l'altro chini, e disse l'uno: «O anima che fitta onde vieni e chi se'; ché tu ne fai E io: «Per mezza Toscana si spazia Di sovr' esso rech' io questa persona: «Se ben lo 'ntendimento tuo accarno E l'altro disse lui: «Perché nascose E l'ombra che di ciò domandata era, ché dal principio suo, ov' è sì pregno infin là 've si rende per ristoro vertù così per nimica si fuga ond' hanno sì mutata lor natura Tra brutti porci, più degni di galle Botoli trova poi, venendo giuso, Vassi caggendo; e quant' ella più 'ngrossa, Discesa poi per più pelaghi cupi, Né lascerò di dir perch' altri m'oda; Io veggio tuo nepote che diventa Vende la carne loro essendo viva; Sanguinoso esce de la trista selva; Com' a l'annunzio di dogliosi danni così vid' io l'altr' anima, che volta Lo dir de l'una e de l'altra la vista per che lo spirto che di pria parlòmi Ma da che Dio in te vuol che traluca Fu il sangue mio d'invidia sì rïarso, Di mia semente cotal paglia mieto; Questi è Rinier; questi è 'l pregio e l'onore E non pur lo suo sangue è fatto brullo, ché dentro a questi termini è ripieno Ov' è 'l buon Lizio e Arrigo Mainardi? Quando in Bologna un Fabbro si ralligna? Non ti maravigliar s'io piango, Tosco, Federigo Tignoso e sua brigata, le donne e ' cavalier, li affanni e li agi O Bretinoro, ché non fuggi via, Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia; Ben faranno i Pagan, da che 'l demonio O Ugolin de' Fantolin, sicuro Ma va via, Tosco, omai; ch'or mi diletta Noi sapavam che quell' anime care Poi fummo fatti soli procedendo, 'Anciderammi qualunque m'apprende'; Come da lei l'udir nostro ebbe triegua, «Io sono Aglauro che divenni sasso»; Già era l'aura d'ogne parte queta; Ma voi prendete l'esca, sì che l'amo Chiamavi 'l cielo e 'ntorno vi si gira, onde vi batte chi tutto discerne». Purgatorio: Canto XV (indice)[Canto XV, il quale tratta de la essenza del terzo girone, luogo diputato a purgare la colpa e peccato de l'ira; e dichiara Virgilio a Dante uno dubbio nato di parole dette nel precedente canto da Guido del Duca, e una visione ch'aparve in sogno a l'auttore, cioè Dante.] Quanto tra l'ultimar de l'ora terza tanto pareva già inver' la sera E i raggi ne ferien per mezzo 'l naso, quand' io senti' a me gravar la fronte ond' io levai le mani inver' la cima Come quando da l'acqua o da lo specchio a quel che scende, e tanto si diparte così mi parve da luce rifratta «Che è quel, dolce padre, a che non posso «Non ti maravigliar s'ancor t'abbaglia Tosto sarà ch'a veder queste cose Poi giunti fummo a l'angel benedetto, Noi montavam, già partiti di linci, Lo mio maestro e io soli amendue e dirizza'mi a lui sì dimandando: Per ch'elli a me: «Di sua maggior magagna Perché s'appuntano i vostri disiri Ma se l'amor de la spera supprema ché, per quanti si dice più lì 'nostro', «Io son d'esser contento più digiuno», Com' esser puote ch'un ben, distributo Ed elli a me: «Però che tu rificchi Quello infinito e ineffabil bene Tanto si dà quanto trova d'ardore; E quanta gente più là sù s'intende, E se la mia ragion non ti disfama, Procaccia pur che tosto sieno spente, Com' io voleva dicer 'Tu m'appaghe', Ivi mi parve in una visïone e una donna, in su l'entrar, con atto Ecco, dolenti, lo tuo padre e io Indi m'apparve un'altra con quell' acque e dir: «Se tu se' sire de la villa vendica te di quelle braccia ardite risponder lei con viso temperato: Poi vidi genti accese in foco d'ira E lui vedea chinarsi, per la morte orando a l'alto Sire, in tanta guerra, Quando l'anima mia tornò di fori Lo duca mio, che mi potea vedere ma se' venuto più che mezza lega «O dolce padre mio, se tu m'ascolte, Ed ei: «Se tu avessi cento larve Ciò che vedesti fu perché non scuse Non dimandai "Che hai?" per quel che face ma dimandai per darti forza al piede: Noi andavam per lo vespero, attenti Ed ecco a poco a poco un fummo farsi Questo ne tolse li occhi e l'aere puro. Purgatorio: Canto XVI (indice)[Canto XVI, dove si tratta del sopradetto terzo girone e del purgare la detta colpa de l'ira; e qui Marco Lombardo solve uno dubbio a Dante.] Buio d'inferno e di notte privata non fece al viso mio sì grosso velo che l'occhio stare aperto non sofferse; Sì come cieco va dietro a sua guida m'andava io per l'aere amaro e sozzo, Io sentia voci, e ciascuna pareva Pur 'Agnus Dei' eran le loro essordia; «Quei sono spirti, maestro, ch'i' odo?», «Or tu chi se' che 'l nostro fummo fendi, Così per una voce detto fue; E io: «O creatura che ti mondi «Io ti seguiterò quanto mi lece», Allora incominciai: «Con quella fascia E se Dio m'ha in sua grazia rinchiuso, non mi celar chi fosti anzi la morte, «Lombardo fui, e fu' chiamato Marco; Per montar sù dirittamente vai». E io a lui: «Per fede mi ti lego Prima era scempio, e ora è fatto doppio Lo mondo è ben così tutto diserto ma priego che m'addite la cagione, Alto sospir, che duolo strinse in «uhi!», Voi che vivete ogne cagion recate Se così fosse, in voi fora distrutto Lo cielo i vostri movimenti inizia; e libero voler; che, se fatica A maggior forza e a miglior natura Però, se 'l mondo presente disvia, Esce di mano a lui che la vagheggia l'anima semplicetta che sa nulla, Di picciol bene in pria sente sapore; Onde convenne legge per fren porre; Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? per che la gente, che sua guida vede Ben puoi veder che la mala condotta Soleva Roma, che 'l buon mondo feo, L'un l'altro ha spento; ed è giunta la spada però che, giunti, l'un l'altro non teme: In sul paese ch'Adice e Po riga, or può sicuramente indi passarsi Ben v'èn tre vecchi ancora in cui rampogna Currado da Palazzo e 'l buon Gherardo Dì oggimai che la Chiesa di Roma, «O Marco mio», diss' io, «bene argomenti; Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio «O tuo parlar m'inganna, o el mi tenta», Per altro sopranome io nol conosco, Vedi l'albor che per lo fummo raia Così tornò, e più non volle udirmi. Purgatorio: Canto XVII (indice)[Canto XVII, dove tratta de la qualità del quarto girone, dove si purga la colpa de la accidia, dove si ristora l'amore de lo imperfetto bene; e qui dichiara una questione che indi nasce.] Ricorditi, lettor, se mai ne l'alpe come, quando i vapori umidi e spessi e fia la tua imagine leggera Sì, pareggiando i miei co' passi fidi O imaginativa che ne rube chi move te, se 'l senso non ti porge? De l'empiezza di lei che mutò forma e qui fu la mia mente sì ristretta Poi piovve dentro a l'alta fantasia intorno ad esso era il grande Assüero, E come questa imagine rompeo surse in mia visïone una fanciulla Ancisa t'hai per non perder Lavina; Come si frange il sonno ove di butto così l'imaginar mio cadde giuso I' mi volgea per veder ov' io fosse, e fece la mia voglia tanto pronta Ma come al sol che nostra vista grava «Questo è divino spirito, che ne la Sì fa con noi, come l'uom si fa sego; Or accordiamo a tanto invito il piede; Così disse il mio duca, e io con lui senti'mi presso quasi un muover d'ala Già eran sovra noi tanto levati 'O virtù mia, perché sì ti dilegue?', Noi eravam dove più non saliva E io attesi un poco, s'io udissi «Dolce mio padre, dì, quale offensione Ed elli a me: «L'amor del bene, scemo Ma perché più aperto intendi ancora, «Né creator né creatura mai», Lo naturale è sempre sanza errore, Mentre ch'elli è nel primo ben diretto, ma quando al mal si torce, o con più cura Quinci comprender puoi ch'esser convene Or, perché mai non può da la salute e perché intender non si può diviso, Resta, se dividendo bene stimo, È chi, per esser suo vicin soppresso, è chi podere, grazia, onore e fama ed è chi per ingiuria par ch'aonti, Questo triforme amor qua giù di sotto Ciascun confusamente un bene apprende Se lento amore a lui veder vi tira Altro ben è che non fa l'uom felice; L'amor ch'ad esso troppo s'abbandona, tacciolo, acciò che tu per te ne cerchi». Purgatorio: Canto XVIII (indice)[Canto XVIII, il quale tratta del sopradetto quarto girone, ove si purga la soprascritta colpa e peccato de l'accidia; e qui mostra Virgilio che è perfetto amore; dove nomina l'abate da San Zeno di Verona.] Posto avea fine al suo ragionamento e io, cui nova sete ancor frugava, Ma quel padre verace, che s'accorse Ond' io: «Maestro, il mio veder s'avviva Però ti prego, dolce padre caro, «Drizza», disse, «ver' me l'agute luci L'animo, ch'è creato ad amar presto, Vostra apprensiva da esser verace e se, rivolto, inver' di lei si piega, Poi, come 'l foco movesi in altura così l'animo preso entra in disire, Or ti puote apparer quant' è nascosa però che forse appar la sua matera «Le tue parole e 'l mio seguace ingegno», ché, s'amore è di fuori a noi offerto Ed elli a me: «Quanto ragion qui vede, Ogne forma sustanzïal, che setta la qual sanza operar non è sentita, Però, là onde vegna lo 'ntelletto che sono in voi sì come studio in ape Or perché a questa ogn' altra si raccoglia, Quest' è 'l principio là onde si piglia Color che ragionando andaro al fondo, Onde, poniam che di necessitate La nobile virtù Beatrice intende La luna, quasi a mezza notte tarda, e correa contra 'l ciel per quelle strade E quell' ombra gentil per cui si noma per ch'io, che la ragione aperta e piana Ma questa sonnolenza mi fu tolta E quale Ismeno già vide e Asopo cotal per quel giron suo passo falca, Tosto fur sovr' a noi, perché correndo «Maria corse con fretta a la montagna; «Ratto, ratto, che 'l tempo non si perda «O gente in cui fervore aguto adesso questi che vive, e certo i' non vi bugio, Parole furon queste del mio duca; Noi siam di voglia a muoverci sì pieni, Io fui abate in San Zeno a Verona E tale ha già l'un piè dentro la fossa, perché suo figlio, mal del corpo intero, Io non so se più disse o s'ei si tacque, E quei che m'era ad ogne uopo soccorso Di retro a tutti dicean: «Prima fue E quella che l'affanno non sofferse Poi quando fuor da noi tanto divise del qual più altri nacquero e diversi; e 'l pensamento in sogno trasmutai. Purgatorio: Canto XIX (indice)[Canto XIX, ove tratta de la essenza del quinto girone e qui si purga la colpa de l'avarizia; dove nomina papa Adriano nato di Genova de' conti da Lavagna.] Ne l'ora che non può 'l calor dïurno - quando i geomanti lor Maggior Fortuna mi venne in sogno una femmina balba, Io la mirava; e come 'l sol conforta la lingua, e poscia tutta la drizzava Poi ch'ell' avea 'l parlar così disciolto, «Io son», cantava, «io son dolce serena, Io volsi Ulisse del suo cammin vago Ancor non era sua bocca richiusa, «O Virgilio, Virgilio, chi è questa?», L'altra prendea, e dinanzi l'apria Io mossi li occhi, e 'l buon maestro: «Almen tre Sù mi levai, e tutti eran già pieni Seguendo lui, portava la mia fronte quand' io udi' «Venite; qui si varca» Con l'ali aperte, che parean di cigno, Mosse le penne poi e ventilonne, «Che hai che pur inver' la terra guati?», E io: «Con tanta sospeccion fa irmi «Vedesti», disse, «quell'antica strega Bastiti, e batti a terra le calcagne; Quale 'l falcon, che prima a' pié si mira, tal mi fec' io; e tal, quanto si fende Com' io nel quinto giro fui dischiuso, 'Adhaesit pavimento anima mea' «O eletti di Dio, li cui soffriri «Se voi venite dal giacer sicuri, Così pregò 'l poeta, e sì risposto e volsi li occhi a li occhi al segnor mio: Poi ch'io potei di me fare a mio senno, dicendo: «Spirto in cui pianger matura Chi fosti e perché vòlti avete i dossi Ed elli a me: «Perché i nostri diretri Intra Sïestri e Chiaveri s'adima Un mese e poco più prova' io come La mia conversïone, omè!, fu tarda; Vidi che lì non s'acquetava il core, Fino a quel punto misera e partita Quel ch'avarizia fa, qui si dichiara Sì come l'occhio nostro non s'aderse Come avarizia spense a ciascun bene ne' piedi e ne le man legati e presi; Io m'era inginocchiato e volea dire; «Qual cagion», disse, «in giù così ti torse?». «Drizza le gambe, lèvati sù, frate!», Se mai quel santo evangelico suono Vattene omai: non vo' che più t'arresti; Nepote ho io di là c'ha nome Alagia, e questa sola di là m'è rimasa». Purgatorio: Canto XX (indice)[Canto XX, ove si tratta del sopradetto girone e de la sopradetta colpa de l'avarizia.] Contra miglior voler voler mal pugna; Mossimi; e 'l duca mio si mosse per li ché la gente che fonde a goccia a goccia Maladetta sie tu, antica lupa, O ciel, nel cui girar par che si creda Noi andavam con passi lenti e scarsi, e per ventura udi' «Dolce Maria!» e seguitar: «Povera fosti tanto, Seguentemente intesi: «O buon Fabrizio, Queste parole m'eran sì piaciute, Esso parlava ancor de la larghezza «O anima che tanto ben favelle, Non fia sanza mercé la tua parola, Ed elli: «Io ti dirò, non per conforto Io fui radice de la mala pianta Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia Chiamato fui di là Ugo Ciappetta; Figliuol fu' io d'un beccaio di Parigi: trova'mi stretto ne le mani il freno ch'a la corona vedova promossa Mentre che la gran dota provenzale Lì cominciò con forza e con menzogna Carlo venne in Italia e, per ammenda, Tempo vegg' io, non molto dopo ancoi, Sanz' arme n'esce e solo con la lancia Quindi non terra, ma peccato e onta L'altro, che già uscì preso di nave, O avarizia, che puoi tu più farne, Perché men paia il mal futuro e 'l fatto, Veggiolo un'altra volta esser deriso; Veggio il novo Pilato sì crudele, O Segnor mio, quando sarò io lieto Ciò ch'io dicea di quell' unica sposa tanto è risposto a tutte nostre prece Noi repetiam Pigmalïon allotta, e la miseria de l'avaro Mida, Del folle Acàn ciascun poi si ricorda, Indi accusiam col marito Saffira; Polinestòr ch'ancise Polidoro; Talor parla l'uno alto e l'altro basso, però al ben che 'l dì ci si ragiona, Noi eravam partiti già da esso, quand' io senti', come cosa che cada, Certo non si scoteo sì forte Delo, Poi cominciò da tutte parti un grido 'Glorïa in excelsis' tutti 'Deo' No' istavamo immobili e sospesi Poi ripigliammo nostro cammin santo, Nulla ignoranza mai con tanta guerra quanta pareami allor, pensando, avere; così m'andava timido e pensoso. Purgatorio: Canto XXI (indice)[Canto XXI, ove si tratta del sopradetto quinto girone, dove si punisce e purga la predetta colpa de l'avarizia e la colpa de la prodigalitade; dove truova Stazio poeta tolosano.] La sete natural che mai non sazia mi travagliava, e pungeami la fretta Ed ecco, sì come ne scrive Luca ci apparve un'ombra, e dietro a noi venìa, dicendo: «O frati miei, Dio vi dea pace». Poi cominciò: «Nel beato concilio «Come!», diss' elli, e parte andavam forte: E 'l dottor mio: «Se tu riguardi a' segni Ma perché lei che dì e notte fila l'anima sua, ch'è tua e mia serocchia, Ond' io fui tratto fuor de l'ampia gola Ma dimmi, se tu sai, perché tai crolli Sì mi diè, dimandando, per la cruna Quei cominciò: «Cosa non è che sanza Libero è qui da ogne alterazione: Per che non pioggia, non grando, non neve, nuvole spesse non paion né rade, secco vapor non surge più avante Trema forse più giù poco o assai; Tremaci quando alcuna anima monda De la mondizia sol voler fa prova, Prima vuol ben, ma non lascia il talento E io, che son giaciuto a questa doglia però sentisti il tremoto e li pii Così ne disse; e però ch'el si gode E 'l savio duca: «Omai veggio la rete Ora chi fosti, piacciati ch'io sappia, «Nel tempo che 'l buon Tito, con l'aiuto col nome che più dura e più onora Tanto fu dolce mio vocale spirto, Stazio la gente ancor di là mi noma: Al mio ardor fuor seme le faville, de l'Eneïda dico, la qual mamma E per esser vivuto di là quando Volser Virgilio a me queste parole ché riso e pianto son tanto seguaci Io pur sorrisi come l'uom ch'ammicca; e «Se tanto labore in bene assommi», Or son io d'una parte e d'altra preso: dal mio maestro, e «Non aver paura», Ond' io: «Forse che tu ti maravigli, Questi che guida in alto li occhi miei, Se cagion altra al mio rider credesti, Già s'inchinava ad abbracciar li piedi Ed ei surgendo: «Or puoi la quantitate trattando l'ombre come cosa salda». Purgatorio: Canto XXII (indice)[Canto XXII, dove tratta de la qualità del sesto girone, dove si punisce e purga la colpa e vizio de la gola; e qui narra Stazio sua purgazione e sua conversione a la cristiana fede.] Già era l'angel dietro a noi rimaso, e quei c'hanno a giustizia lor disiro E io più lieve che per l'altre foci quando Virgilio incominciò: «Amore, onde da l'ora che tra noi discese mia benvoglienza inverso te fu quale Ma dimmi, e come amico mi perdona come poté trovar dentro al tuo seno Queste parole Stazio mover fenno Veramente più volte appaion cose La tua dimanda tuo creder m'avvera Or sappi ch'avarizia fu partita E se non fosse ch'io drizzai mia cura, 'Per che non reggi tu, o sacra fame Allor m'accorsi che troppo aprir l'ali Quanti risurgeran coi crini scemi E sappie che la colpa che rimbecca però, s'io son tra quella gente stato «Or quando tu cantasti le crude armi «per quello che Clïò teco lì tasta, Se così è, qual sole o quai candele Ed elli a lui: «Tu prima m'invïasti Facesti come quei che va di notte, quando dicesti: 'Secol si rinova; Per te poeta fui, per te cristiano: Già era 'l mondo tutto quanto pregno e la parola tua sopra toccata Vennermi poi parendo tanto santi, e mentre che di là per me si stette, E pria ch'io conducessi i Greci a' fiumi lungamente mostrando paganesmo; Tu dunque, che levato hai il coperchio dimmi dov' è Terrenzio nostro antico, «Costoro e Persio e io e altri assai», nel primo cinghio del carcere cieco; Euripide v'è nosco e Antifonte, Quivi si veggion de le genti tue Védeisi quella che mostrò Langia; Tacevansi ambedue già li poeti, e già le quattro ancelle eran del giorno quando il mio duca: «Io credo ch'a lo stremo Così l'usanza fu lì nostra insegna, Elli givan dinanzi, e io soletto Ma tosto ruppe le dolci ragioni e come abete in alto si digrada Dal lato onde 'l cammin nostro era chiuso, Li due poeti a l'alber s'appressaro; Poi disse: «Più pensava Maria onde E le Romane antiche, per lor bere, Lo secol primo, quant' oro fu bello, Mele e locuste furon le vivande quanto per lo Vangelio v'è aperto». Purgatorio: Canto XXIII (indice)[Canto XXIII, dove si tratta del sopradetto girone e di quella medesima colpa de la gola, e sgrida contro a le donne fiorentine; dove truova Forese de' Donati di Fiorenze col quale molto parla.] Mentre che li occhi per la fronda verde lo più che padre mi dicea: «Figliuole, Io volsi 'l viso, e 'l passo non men tosto, Ed ecco piangere e cantar s'udìe «O dolce padre, che è quel ch'i' odo?», Sì come i peregrin pensosi fanno, così di retro a noi, più tosto mota, Ne li occhi era ciascuna oscura e cava, Non credo che così a buccia strema Io dicea fra me stesso pensando: 'Ecco Parean l'occhiaie anella sanza gemme: Chi crederebbe che l'odor d'un pomo Già era in ammirar che sì li affama, ed ecco del profondo de la testa Mai non l'avrei riconosciuto al viso; Questa favilla tutta mi raccese «Deh, non contendere a l'asciutta scabbia ma dimmi il ver di te, dì chi son quelle «La faccia tua, ch'io lagrimai già morta, Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia; Ed elli a me: «De l'etterno consiglio Tutta esta gente che piangendo canta Di bere e di mangiar n'accende cura E non pur una volta, questo spazzo ché quella voglia a li alberi ci mena E io a lui: «Forese, da quel dì Se prima fu la possa in te finita come se' tu qua sù venuto ancora? Ond' elli a me: «Sì tosto m'ha condotto Con suoi prieghi devoti e con sospiri Tanto è a Dio più cara e più diletta ché la Barbagia di Sardigna assai O dolce frate, che vuo' tu ch'io dica? nel qual sarà in pergamo interdetto Quai barbare fuor mai, quai saracine, Ma se le svergognate fosser certe ché, se l'antiveder qui non m'inganna, Deh, frate, or fa che più non mi ti celi! Per ch'io a lui: «Se tu riduci a mente Di quella vita mi volse costui e 'l sol mostrai; «costui per la profonda Indi m'han tratto sù li suoi conforti, Tanto dice di farmi sua compagna Virgilio è questi che così mi dice», lo vostro regno, che da sé lo sgombra». Purgatorio: Canto XXIV (indice)[Canto XXIV nel quale si tratta del sopradetto sesto girone e di quelli che si purgano del predetto peccato e vizio de la gola; e predicesi qui alcune cose a venire de la città lucana.] Né 'l dir l'andar, né l'andar lui più lento e l'ombre, che parean cose rimorte, E io, continüando al mio sermone, Ma dimmi, se tu sai, dov' è Piccarda; «La mia sorella, che tra bella e buona Sì disse prima; e poi: «Qui non si vieta Questi», e mostrò col dito, «è Bonagiunta, ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia: Molti altri mi nomò ad uno ad uno; Vidi per fame a vòto usar li denti Vidi messer Marchese, ch'ebbe spazio Ma come fa chi guarda e poi s'apprezza El mormorava; e non so che «Gentucca» «O anima», diss' io, «che par sì vaga «Femmina è nata, e non porta ancor benda», Tu te n'andrai con questo antivedere: Ma dì s'i' veggio qui colui che fore E io a lui: «I' mi son un che, quando «O frate, issa vegg' io», diss' elli, «il nodo Io veggio ben come le vostre penne e qual più a gradire oltre si mette, Come li augei che vernan lungo 'l Nilo, così tutta la gente che lì era, E come l'uom che di trottare è lasso, sì lasciò trapassar la santa greggia «Non so», rispuos' io lui, «quant' io mi viva; però che 'l loco u' fui a viver posto, «Or va», diss' el; «che quei che più n'ha colpa, La bestia ad ogne passo va più ratto, Non hanno molto a volger quelle ruote», Tu ti rimani omai; ché 'l tempo è caro Qual esce alcuna volta di gualoppo tal si partì da noi con maggior valchi; E quando innanzi a noi intrato fue, parvermi i rami gravidi e vivaci Vidi gente sott' esso alzar le mani che pregano, e 'l pregato non risponde, Poi si partì sì come ricreduta; «Trapassate oltre sanza farvi presso: Sì tra le frasche non so chi diceva; «Ricordivi», dicea, «d'i maladetti e de li Ebrei ch'al ber si mostrar molli, Sì accostati a l'un d'i due vivagni Poi, rallargati per la strada sola, «Che andate pensando sì voi sol tre?». Drizzai la testa per veder chi fossi; com' io vidi un che dicea: «S'a voi piace L'aspetto suo m'avea la vista tolta; E quale, annunziatrice de li albori, tal mi senti' un vento dar per mezza E senti' dir: «Beati cui alluma esurïendo sempre quanto è giusto!». Purgatorio: Canto XXV (indice)[Canto XXV, lo quale tratta de l'essenzia del settimo girone, dove si punisce la colpa e peccato contro a natura ed ermafrodito sotto il vizio de la lussuria; e prima tratta alquanto del precedente purgamento de' ghiotti, dove Stazio poeta fae una distinzione sopra la natura umana.] Ora era onde 'l salir non volea storpio; per che, come fa l'uom che non s'affigge così intrammo noi per la callaia, E quale il cicognin che leva l'ala tal era io con voglia accesa e spenta Non lasciò, per l'andar che fosse ratto, Allor sicuramente apri' la bocca «Se t'ammentassi come Meleagro e se pensassi come, al vostro guizzo, Ma perché dentro a tuo voler t'adage, «Se la veduta etterna li dislego», Poi cominciò: «Se le parole mie, Sangue perfetto, che poi non si beve prende nel core a tutte membra umane Ancor digesto, scende ov' è più bello Ivi s'accoglie l'uno e l'altro insieme, e, giunto lui, comincia ad operare Anima fatta la virtute attiva tanto ovra poi, che già si move e sente, Or si spiega, figliuolo, or si distende Ma come d'animal divegna fante, sì che per sua dottrina fé disgiunto Apri a la verità che viene il petto; lo motor primo a lui si volge lieto che ciò che trova attivo quivi, tira E perché meno ammiri la parola, Quando Làchesis non ha più del lino, l'altre potenze tutte quante mute; Sanza restarsi, per sé stessa cade Tosto che loco lì la circunscrive, E come l'aere, quand' è ben pïorno, così l'aere vicin quivi si mette e simigliante poi a la fiammella Però che quindi ha poscia sua paruta, Quindi parliamo e quindi ridiam noi; Secondo che ci affliggono i disiri E già venuto a l'ultima tortura Quivi la ripa fiamma in fuor balestra, ond' ir ne convenia dal lato schiuso Lo duca mio dicea: «Per questo loco 'Summae Deus clementïae' nel seno e vidi spirti per la fiamma andando; Appresso il fine ch'a quell' inno fassi, Finitolo, anco gridavano: «Al bosco Indi al cantar tornavano; indi donne E questo modo credo che lor basti che la piaga da sezzo si ricuscia. Purgatorio: Canto XXVI (indice)[Canto XXVI, dove tratta di quello medesimo girone e del purgamento de' predetti peccati e vizi lussuriosi; dove nomina messer Guido Guinizzelli da Bologna e molti altri.] Mentre che sì per l'orlo, uno innanzi altro, feriami il sole in su l'omero destro, e io facea con l'ombra più rovente Questa fu la cagion che diede inizio poi verso me, quanto potëan farsi, «O tu che vai, non per esser più tardo, Né solo a me la tua risposta è uopo; Dinne com' è che fai di te parete Sì mi parlava un d'essi; e io mi fora ché per lo mezzo del cammino acceso Lì veggio d'ogne parte farsi presta così per entro loro schiera bruna Tosto che parton l'accoglienza amica, la nova gente: «Soddoma e Gomorra»; Poi, come grue ch'a le montagne Rife l'una gente sen va, l'altra sen vene; e raccostansi a me, come davanti, Io, che due volte avea visto lor grato, non son rimase acerbe né mature Quinci sù vo per non esser più cieco; Ma se la vostra maggior voglia sazia ditemi, acciò ch'ancor carte ne verghi, Non altrimenti stupido si turba che ciascun' ombra fece in sua paruta; «Beato te, che de le nostre marche», La gente che non vien con noi, offese però si parton "Soddoma" gridando, Nostro peccato fu ermafrodito; in obbrobrio di noi, per noi si legge, Or sai nostri atti e di che fummo rei: Farotti ben di me volere scemo: Quali ne la tristizia di Ligurgo quand' io odo nomar sé stesso il padre e sanza udire e dir pensoso andai Poi che di riguardar pasciuto fui, Ed elli a me: «Tu lasci tal vestigio, Ma se le tue parole or ver giuraro, E io a lui: «Li dolci detti vostri, «O frate», disse, «questi ch'io ti cerno Versi d'amore e prose di romanzi A voce più ch'al ver drizzan li volti, Così fer molti antichi di Guittone, Or se tu hai sì ampio privilegio, falli per me un dir d'un paternostro, Poi, forse per dar luogo altrui secondo Io mi fei al mostrato innanzi un poco, El cominciò liberamente a dire: Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan; Ara vos prec, per aquella valor Poi s'ascose nel foco che li affina. Purgatorio: Canto XXVII (indice)[Canto XXVII, dove tratta d'una visione che apparve a Dante in sogno, o come pervennero a la sommità del monte ed entraro nel Paradiso Terrestre chiamato paradiso delitiarum.] Sì come quando i primi raggi vibra e l'onde in Gange da nona rïarse, Fuor de la fiamma stava in su la riva, Poscia «Più non si va, se pria non morde, ci disse come noi li fummo presso; In su le man commesse mi protesi, Volsersi verso me le buone scorte; Ricorditi, ricorditi! E se io Credi per certo che se dentro a l'alvo E se tu forse credi ch'io t'inganni, Pon giù omai, pon giù ogne temenza; Quando mi vide star pur fermo e duro, Come al nome di Tisbe aperse il ciglio così, la mia durezza fatta solla, Ond' ei crollò la fronte e disse: «Come! Poi dentro al foco innanzi mi si mise, Sì com' fui dentro, in un bogliente vetro Lo dolce padre mio, per confortarmi, Guidavaci una voce che cantava 'Venite, benedicti Patris mei', «Lo sol sen va», soggiunse, «e vien la sera; Dritta salia la via per entro 'l sasso E di pochi scaglion levammo i saggi, E pria che 'n tutte le sue parti immense ciascun di noi d'un grado fece letto; Quali si stanno ruminando manse tacite a l'ombra, mentre che 'l sol ferve, e quale il mandrïan che fori alberga, tali eravamo tutti e tre allotta, Poco parer potea lì del di fori; Sì ruminando e sì mirando in quelle, Ne l'ora, credo, che de l'orïente giovane e bella in sogno mi parea «Sappia qualunque il mio nome dimanda Per piacermi a lo specchio, qui m'addorno; Ell' è d'i suoi belli occhi veder vaga E già per li splendori antelucani, le tenebre fuggian da tutti lati, «Quel dolce pome che per tanti rami Virgilio inverso me queste cotali Tanto voler sopra voler mi venne Come la scala tutta sotto noi e disse: «Il temporal foco e l'etterno Tratto t'ho qui con ingegno e con arte; Vedi lo sol che 'n fronte ti riluce; Mentre che vegnan lieti li occhi belli Non aspettar mio dir più né mio cenno; per ch'io te sovra te corono e mitrio». Purgatorio: Canto XXVIII (indice)[Canto XXVIII, ove si tratta come la vita attiva distingue a l'auttore la natura del fiume di Letè, il quale trovò nel detto Paradiso, ove molto dimostra de la felicitade e del peccato di Adamo, e del modo e ordine del detto luogo.] Vago già di cercar dentro e dintorno sanza più aspettar, lasciai la riva, Un'aura dolce, sanza mutamento per cui le fronde, tremolando, pronte non però dal loro esser dritto sparte ma con piena letizia l'ore prime, tal qual di ramo in ramo si raccoglie Già m'avean trasportato i lenti passi ed ecco più andar mi tolse un rio, Tutte l'acque che son di qua più monde, avvegna che si mova bruna bruna Coi piè ristetti e con li occhi passai e là m'apparve, sì com' elli appare una donna soletta che si gia «Deh, bella donna, che a' raggi d'amore vegnati in voglia di trarreti avanti», Tu mi fai rimembrar dove e qual era Come si volge, con le piante strette volsesi in su i vermigli e in su i gialli e fece i prieghi miei esser contenti, Tosto che fu là dove l'erbe sono Non credo che splendesse tanto lume Ella ridea da l'altra riva dritta, Tre passi ci facea il fiume lontani; più odio da Leandro non sofferse «Voi siete nuovi, e forse perch' io rido», maravigliando tienvi alcun sospetto; E tu che se' dinanzi e mi pregasti, «L'acqua», diss' io, «e 'l suon de la foresta Ond' ella: «Io dicerò come procede Lo sommo Ben, che solo esso a sé piace, Per sua difalta qui dimorò poco; Perché 'l turbar che sotto da sé fanno a l'uomo non facesse alcuna guerra, Or perché in circuito tutto quanto in questa altezza ch'è tutta disciolta e la percossa pianta tanto puote, e l'altra terra, secondo ch'è degna Non parrebbe di là poi maraviglia, E saper dei che la campagna santa L'acqua che vedi non surge di vena ma esce di fontana salda e certa, Da questa parte con virtù discende Quinci Letè; così da l'altro lato a tutti altri sapori esto è di sopra. darotti un corollario ancor per grazia; Quelli ch'anticamente poetaro Qui fu innocente l'umana radice; Io mi rivolsi 'n dietro allora tutto poi a la bella donna torna' il viso. Purgatorio: Canto XXIX (indice)[Canto XXIX, dove si tratta sì come l'auttore contristato si conduoleva e come vide li sette doni del Santo Spirito e Cristo e la celestiale corte in forma di certe figure.] Cantando come donna innamorata, E come ninfe che si givan sole allor si mosse contra 'l fiume, andando Non eran cento tra ' suoi passi e ' miei, Né ancor fu così nostra via molta, Ed ecco un lustro sùbito trascorse Ma perché 'l balenar, come vien, resta, E una melodia dolce correva che là dove ubidia la terra e 'l cielo, sotto 'l qual se divota fosse stata, Mentr' io m'andava tra tante primizie dinanzi a noi, tal quale un foco acceso, O sacrosante Vergini, se fami, Or convien che Elicona per me versi, Poco più oltre, sette alberi d'oro ma quand' i' fui sì presso di lor fatto, la virtù ch'a ragion discorso ammanna, Di sopra fiammeggiava il bello arnese Io mi rivolsi d'ammirazion pieno Indi rendei l'aspetto a l'alte cose La donna mi sgridò: «Perché pur ardi Genti vid' io allor, come a lor duci, L'acqua imprendëa dal sinistro fianco, Quand' io da la mia riva ebbi tal posta, e vidi le fiammelle andar davante, sì che lì sopra rimanea distinto Questi ostendali in dietro eran maggiori Sotto così bel ciel com' io diviso, Tutti cantavan: «Benedicta tue Poscia che i fiori e l'altre fresche erbette sì come luce luce in ciel seconda, Ognuno era pennuto di sei ali; A descriver lor forme più non spargo ma leggi Ezechïel, che li dipigne e quali i troverai ne le sue carte, Lo spazio dentro a lor quattro contenne Esso tendeva in sù l'una e l'altra ale Tanto salivan che non eran viste; Non che Roma di carro così bello quel del Sol che, svïando, fu combusto Tre donne in giro da la destra rota l'altr' era come se le carni e l'ossa e or parëan da la bianca tratte, Da la sinistra quattro facean festa, Appresso tutto il pertrattato nodo L'un si mostrava alcun de' famigliari mostrava l'altro la contraria cura Poi vidi quattro in umile paruta; E questi sette col primaio stuolo anzi di rose e d'altri fior vermigli; E quando il carro a me fu a rimpetto, fermandosi ivi con le prime insegne. Purgatorio: Canto XXX (indice)[Canto XXX, dove narra come Beatrice apparve a Dante e Virgilio il lasciò, e lo recitare per l'alta donna de la incostanza e difetto di Dante, e qui l'auttore piange i suoi difetti con vergogna compuntiva.] Quando il settentrïon del primo cielo, e che faceva lì ciascuno accorto fermo s'affisse: la gente verace, e un di loro, quasi da ciel messo, Quali i beati al novissimo bando cotali in su la divina basterna Tutti dicean: 'Benedictus qui venis!', Io vidi già nel cominciar del giorno e la faccia del sol nascere ombrata, così dentro una nuvola di fiori sovra candido vel cinta d'uliva E lo spirito mio, che già cotanto sanza de li occhi aver più conoscenza, Tosto che ne la vista mi percosse volsimi a la sinistra col respitto per dicere a Virgilio: 'Men che dramma Ma Virgilio n'avea lasciati scemi né quantunque perdeo l'antica matre, «Dante, perché Virgilio se ne vada, Quasi ammiraglio che in poppa e in prora in su la sponda del carro sinistra, vidi la donna che pria m'appario Tutto che 'l vel che le scendea di testa, regalmente ne l'atto ancor proterva «Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice. Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte; Così la madre al figlio par superba, Ella si tacque; e li angeli cantaro Sì come neve tra le vive travi poi, liquefatta, in sé stessa trapela, così fui sanza lagrime e sospiri ma poi che 'ntesi ne le dolci tempre lo gel che m'era intorno al cor ristretto, Ella, pur ferma in su la detta coscia «Voi vigilate ne l'etterno die, onde la mia risposta è con più cura Non pur per ovra de le rote magne, ma per larghezza di grazie divine, questi fu tal ne la sua vita nova Ma tanto più maligno e più silvestro Alcun tempo il sostenni col mio volto: Sì tosto come in su la soglia fui Quando di carne a spirto era salita, e volse i passi suoi per via non vera, Né l'impetrare ispirazion mi valse, Tanto giù cadde, che tutti argomenti Per questo visitai l'uscio d'i morti, Alto fato di Dio sarebbe rotto, di pentimento che lagrime spanda». Purgatorio: Canto XXXI (indice)[Canto XXXI, ove si tratta sì come Beatrice riprende l'auttore de le commesse colpe, e come la donna che avante li apparve il bagna.] «O tu che se' di là dal fiume sacro», ricominciò, seguendo sanza cunta, Era la mia virtù tanto confusa, Poco sofferse; poi disse: «Che pense? Confusione e paura insieme miste Come balestro frange, quando scocca sì scoppia' io sottesso grave carco, Ond' ella a me: «Per entro i mie' disiri, quai fossi attraversati o quai catene E quali agevolezze o quali avanzi Dopo la tratta d'un sospiro amaro, Piangendo dissi: «Le presenti cose Ed ella: «Se tacessi o se negassi Ma quando scoppia de la propria gota Tuttavia, perché mo vergogna porte pon giù il seme del piangere e ascolta: Mai non t'appresentò natura o arte e se 'l sommo piacer sì ti fallio Ben ti dovevi, per lo primo strale Non ti dovea gravar le penne in giuso, Novo augelletto due o tre aspetta; Quali fanciulli, vergognando, muti tal mi stav' io; ed ella disse: «Quando Con men di resistenza si dibarba ch'io non levai al suo comando il mento; E come la mia faccia si distese, e le mie luci, ancor poco sicure, Sotto 'l suo velo e oltre la rivera Di penter sì mi punse ivi l'ortica, Tanta riconoscenza il cor mi morse, Poi, quando il cor virtù di fuor rendemmi, Tratto m'avea nel fiume infin la gola, Quando fui presso a la beata riva, La bella donna ne le braccia aprissi; Indi mi tolse, e bagnato m'offerse «Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle; Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo Così cantando cominciaro; e poi Disser: «Fa che le viste non risparmi; Mille disiri più che fiamma caldi Come in lo specchio il sol, non altrimenti Pensa, lettor, s'io mi maravigliava, Mentre che piena di stupore e lieta sé dimostrando di più alto tribo «Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi», Per grazia fa noi grazia che disvele O isplendor di viva luce etterna, che non paresse aver la mente ingombra, quando ne l'aere aperto ti solvesti? Purgatorio: Canto XXXII (indice)[Canto XXXII, dove si tratta come Beatrice comandò a l'auttore che scrivesse li miracoli che vide in quel luogo, e come elli con le donne seguio il carro, e l'aguglia percosse il carro, e una volpe sen fuggio, e de la puttana e del gigante.] Tant' eran li occhi miei fissi e attenti Ed essi quinci e quindi avien parete quando per forza mi fu vòlto il viso e la disposizion ch'a veder èe Ma poi ch'al poco il viso riformossi vidi 'n sul braccio destro esser rivolto Come sotto li scudi per salvarsi quella milizia del celeste regno Indi a le rote si tornar le donne, La bella donna che mi trasse al varco Sì passeggiando l'alta selva vòta, Forse in tre voli tanto spazio prese Io senti' mormorare a tutti «Adamo»; La coma sua, che tanto si dilata «Beato se', grifon, che non discindi Così dintorno a l'albero robusto E vòlto al temo ch'elli avea tirato, Come le nostre piante, quando casca turgide fansi, e poi si rinovella men che di rose e più che di vïole Io non lo 'ntesi, né qui non si canta S'io potessi ritrar come assonnaro come pintor che con essempro pinga, Però trascorro a quando mi svegliai, Quali a veder de' fioretti del melo Pietro e Giovanni e Iacopo condotti e videro scemata loro scuola tal torna' io, e vidi quella pia E tutto in dubbio dissi: «Ov' è Beatrice?». Vedi la compagnia che la circonda: E se più fu lo suo parlar diffuso, Sola sedeasi in su la terra vera, In cerchio le facevan di sé claustro «Qui sarai tu poco tempo silvano; Però, in pro del mondo che mal vive, Così Beatrice; e io, che tutto ai piedi Non scese mai con sì veloce moto com' io vidi calar l'uccel di Giove e ferì 'l carro di tutta sua forza; Poscia vidi avventarsi ne la cuna ma, riprendendo lei di laide colpe, Poscia per indi ond' era pria venuta, e qual esce di cuor che si rammarca, Poi parve a me che la terra s'aprisse e come vespa che ritragge l'ago, Quel che rimase, come da gramigna si ricoperse, e funne ricoperta Trasformato così 'l dificio santo Le prime eran cornute come bue, Sicura, quasi rocca in alto monte, e come perché non li fosse tolta, Ma perché l'occhio cupido e vagante poi, di sospetto pieno e d'ira crudo, a la puttana e a la nova belva. Purgatorio: Canto XXXIII (indice)[Canto XXXIII, il quale si è l'ultimo de la seconda cantica, ove si racconta sì come Beatrice dichiaroe a Dante quelle cose ch'elli vide, trattando e dimostrando le future vendette e de la ingiuria nel predetto carro del grifone; e infine, veduti li quattro fiumi del Paradiso, escono verso il cielo.] 'Deus, venerunt gentes', alternando e Bëatrice, sospirosa e pia, Ma poi che l'altre vergini dier loco 'Modicum, et non videbitis me; Poi le si mise innanzi tutte e sette, Così sen giva; e non credo che fosse e con tranquillo aspetto «Vien più tosto», Sì com' io fui, com' io dovëa, seco, Come a color che troppo reverenti avvenne a me, che sanza intero suono Ed ella a me: «Da tema e da vergogna Sappi che 'l vaso che 'l serpente ruppe, Non sarà tutto tempo sanza reda ch'io veggio certamente, e però il narro, nel quale un cinquecento diece e cinque, E forse che la mia narrazion buia, ma tosto fier li fatti le Naiade, Tu nota; e sì come da me son porte, E aggi a mente, quando tu le scrivi, Qualunque ruba quella o quella schianta, Per morder quella, in pena e in disio Dorme lo 'ngegno tuo, se non estima E se stati non fossero acqua d'Elsa per tante circostanze solamente Ma perch' io veggio te ne lo 'ntelletto voglio anco, e se non scritto, almen dipinto, E io: «Sì come cera da suggello, Ma perché tanto sovra mia veduta «Perché conoschi», disse, «quella scuola e veggi vostra via da la divina Ond' io rispuosi lei: «Non mi ricorda «E se tu ricordar non te ne puoi», e se dal fummo foco s'argomenta, Veramente oramai saranno nude E più corusco e con più lenti passi quando s'affisser, sì come s'affigge le sette donne al fin d'un'ombra smorta, Dinanzi ad esse Ëufratès e Tigri «O luce, o gloria de la gente umana, Per cotal priego detto mi fu: «Priega la bella donna: «Questo e altre cose E Bëatrice: «Forse maggior cura, Ma vedi Eünoè che là diriva: Come anima gentil, che non fa scusa, così, poi che da essa preso fui, S'io avessi, lettor, più lungo spazio ma perché piene son tutte le carte Io ritornai da la santissima onda puro e disposto a salire a le stelle. [Explicit secunda pars Comedie Dantis Alagherii |
ParadisoParadiso: Canto I (indice)[Comincia la terza cantica de la Commedia di Dante Alaghiere di Fiorenza, ne la quale si tratta de' beati e de la celestiale gloria e de' meriti e premi de' santi, e dividesi in nove parti. Canto primo, nel cui principio l'auttore proemizza a la seguente cantica; e sono ne lo elemento del fuoco e Beatrice solve a l'auttore una questione; nel quale canto l'auttore promette di trattare de le cose divine invocando la scienza poetica, cioè Appollo chiamato il deo de la Sapienza.] La gloria di colui che tutto move Nel ciel che più de la sua luce prende perché appressando sé al suo disire, Veramente quant' io del regno santo O buono Appollo, a l'ultimo lavoro Infino a qui l'un giogo di Parnaso Entra nel petto mio, e spira tue O divina virtù, se mi ti presti vedra'mi al piè del tuo diletto legno Sì rade volte, padre, se ne coglie che parturir letizia in su la lieta Poca favilla gran fiamma seconda: Surge ai mortali per diverse foci con miglior corso e con migliore stella Fatto avea di là mane e di qua sera quando Beatrice in sul sinistro fianco E sì come secondo raggio suole così de l'atto suo, per li occhi infuso Molto è licito là, che qui non lece Io nol soffersi molto, né sì poco, e di sùbito parve giorno a giorno Beatrice tutta ne l'etterne rote Nel suo aspetto tal dentro mi fei, Trasumanar significar per verba S'i' era sol di me quel che creasti Quando la rota che tu sempiterni parvemi tanto allor del cielo acceso La novità del suono e 'l grande lume Ond' ella, che vedea me sì com' io, e cominciò: «Tu stesso ti fai grosso Tu non se' in terra, sì come tu credi; S'io fui del primo dubbio disvestito e dissi: «Già contento requïevi Ond' ella, appresso d'un pïo sospiro, e cominciò: «Le cose tutte quante Qui veggion l'alte creature l'orma Ne l'ordine ch'io dico sono accline onde si muovono a diversi porti Questi ne porta il foco inver' la luna; né pur le creature che son fore La provedenza, che cotanto assetta, e ora lì, come a sito decreto, Vero è che, come forma non s'accorda così da questo corso si diparte e sì come veder si può cadere Non dei più ammirar, se bene stimo, Maraviglia sarebbe in te se, privo Quinci rivolse inver' lo cielo il viso. Paradiso: Canto II (indice)[Canto secondo, ove tratta come Beatrice e l'auttore pervegnono al cielo de la Luna, aprendo la veritade de l'ombra ch'appare in essa; e qui comincia questa terza parte de la Commedia quanto al proprio dire.] O voi che siete in piccioletta barca, tornate a riveder li vostri liti: L'acqua ch'io prendo già mai non si corse; Voialtri pochi che drizzaste il collo metter potete ben per l'alto sale Que' glorïosi che passaro al Colco La concreata e perpetüa sete Beatrice in suso, e io in lei guardava; giunto mi vidi ove mirabil cosa volta ver' me, sì lieta come bella, Parev' a me che nube ne coprisse Per entro sé l'etterna margarita S'io era corpo, e qui non si concepe accender ne dovria più il disio Lì si vedrà ciò che tenem per fede, Io rispuosi: «Madonna, sì devoto Ma ditemi: che son li segni bui Ella sorrise alquanto, e poi «S'elli erra certo non ti dovrien punger li strali Ma dimmi quel che tu da te ne pensi». Ed ella: «Certo assai vedrai sommerso La spera ottava vi dimostra molti Se raro e denso ciò facesser tanto, Virtù diverse esser convegnon frutti Ancor, se raro fosse di quel bruno esto pianeto, o, sì come comparte Se 'l primo fosse, fora manifesto Questo non è: però è da vedere S'elli è che questo raro non trapassi, e indi l'altrui raggio si rifonde Or dirai tu ch'el si dimostra tetro Da questa instanza può deliberarti Tre specchi prenderai; e i due rimovi Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso Ben che nel quanto tanto non si stenda Or, come ai colpi de li caldi rai così rimaso te ne l'intelletto Dentro dal ciel de la divina pace Lo ciel seguente, c'ha tante vedute, Li altri giron per varie differenze Questi organi del mondo così vanno, Riguarda bene omai sì com' io vado Lo moto e la virtù d'i santi giri, e 'l ciel cui tanti lumi fanno bello, E come l'alma dentro a vostra polve così l'intelligenza sua bontate Virtù diversa fa diversa lega Per la natura lieta onde deriva, Da essa vien ciò che da luce a luce conforme a sua bontà, lo turbo e 'l chiaro». Paradiso: Canto III (indice)[Canto terzo, nel quale si tratta di quello medesimo cielo de la Luna e di certi spiriti che appariro in esso; e solve qui una questione: cioè se li spiriti che sono in cielo di sotto vorrebbero esser più sù ch'elli siano.] Quel sol che pria d'amor mi scaldò 'l petto, e io, per confessar corretto e certo ma visïone apparve che ritenne Quali per vetri trasparenti e tersi, tornan d'i nostri visi le postille tali vid' io più facce a parlar pronte; Sùbito sì com' io di lor m'accorsi, e nulla vidi, e ritorsili avanti «Non ti maravigliar perch' io sorrida», ma te rivolve, come suole, a vòto: Però parla con esse e odi e credi; E io a l'ombra che parea più vaga «O ben creato spirito, che a' rai grazïoso mi fia se mi contenti «La nostra carità non serra porte I' fui nel mondo vergine sorella; ma riconoscerai ch'i' son Piccarda, Li nostri affetti, che solo infiammati E questa sorte che par giù cotanto, Ond' io a lei: «Ne' mirabili aspetti però non fui a rimembrar festino; Ma dimmi: voi che siete qui felici, Con quelle altr' ombre pria sorrise un poco; «Frate, la nostra volontà quïeta Se disïassimo esser più superne, che vedrai non capere in questi giri, Anzi è formale ad esto beato esse sì che, come noi sem di soglia in soglia E 'n la sua volontade è nostra pace: Chiaro mi fu allor come ogne dove Ma sì com' elli avvien, s'un cibo sazia così fec' io con atto e con parola, «Perfetta vita e alto merto inciela perché fino al morir si vegghi e dorma Dal mondo, per seguirla, giovinetta Uomini poi, a mal più ch'a bene usi, E quest' altro splendor che ti si mostra ciò ch'io dico di me, di sé intende; Ma poi che pur al mondo fu rivolta Quest' è la luce de la gran Costanza Così parlommi, e poi cominciò 'Ave, La vista mia, che tanto lei seguio e a Beatrice tutta si converse; e ciò mi fece a dimandar più tardo. Paradiso: Canto IV (indice)[Canto IV, dove in quello medesimo cielo due veritadi si manifestano da Beatrice: l'una è del luogo de' beati, e l'altra si è de la voluntate mista e de la obsuluta; e propone terza questione del voto e se si puote satisfare al voto rotto e non osservato.] Intra due cibi, distanti e moventi sì si starebbe un agno intra due brame per che, s'i' mi tacea, me non riprendo, Io mi tacea, ma 'l mio disir dipinto Fé sì Beatrice qual fé Danïello, e disse: «Io veggio ben come ti tira Tu argomenti: "Se 'l buon voler dura, Ancor di dubitar ti dà cagione Queste son le question che nel tuo velle D'i Serafin colui che più s'india, non hanno in altro cielo i loro scanni ma tutti fanno bello il primo giro, Qui si mostraro, non perché sortita Così parlar conviensi al vostro ingegno, Per questo la Scrittura condescende e Santa Chiesa con aspetto umano Quel che Timeo de l'anime argomenta Dice che l'alma a la sua stella riede, e forse sua sentenza è d'altra guisa S'elli intende tornare a queste ruote Questo principio, male inteso, torse L'altra dubitazion che ti commove Parere ingiusta la nostra giustizia Ma perché puote vostro accorgimento Se vïolenza è quando quel che pate ché volontà, se non vuol, non s'ammorza, Per che, s'ella si piega assai o poco, Se fosse stato lor volere intero, così l'avria ripinte per la strada E per queste parole, se ricolte Ma or ti s'attraversa un altro passo Io t'ho per certo ne la mente messo e poi potesti da Piccarda udire Molte fïate già, frate, addivenne come Almeone, che, di ciò pregato A questo punto voglio che tu pense Voglia assoluta non consente al danno; Però, quando Piccarda quello spreme, Cotal fu l'ondeggiar del santo rio «O amanza del primo amante, o diva», non è l'affezion mia tanto profonda, Io veggio ben che già mai non si sazia Posasi in esso, come fera in lustra, Nasce per quello, a guisa di rampollo, Questo m'invita, questo m'assicura Io vo' saper se l'uom può sodisfarvi Beatrice mi guardò con li occhi pieni e quasi mi perdei con li occhi chini. Paradiso: Canto V (indice)[Canto V, nel quale solve una questione premessa nel precedente canto e ammaestra li cristiani intorno a li voti ch'elli fanno a Dio; ed entrasi nel cielo di Mercurio, e qui comincia la seconda parte di questa cantica.] «S'io ti fiammeggio nel caldo d'amore non ti maravigliar, ché ciò procede Io veggio ben sì come già resplende e s'altra cosa vostro amor seduce, Tu vuo' saper se con altro servigio, Sì cominciò Beatrice questo canto; «Lo maggior don che Dio per sua larghezza fu de la volontà la libertate; Or ti parrà, se tu quinci argomenti, ché, nel fermar tra Dio e l'omo il patto, Dunque che render puossi per ristoro? Tu se' omai del maggior punto certo; convienti ancor sedere un poco a mensa, Apri la mente a quel ch'io ti paleso Due cose si convegnono a l'essenza Quest' ultima già mai non si cancella però necessitato fu a li Ebrei L'altra, che per materia t'è aperta, Ma non trasmuti carco a la sua spalla e ogne permutanza credi stolta, Però qualunque cosa tanto pesa Non prendan li mortali il voto a ciancia; cui più si convenia dicer 'Mal feci', onde pianse Efigènia il suo bel volto, Siate, Cristiani, a muovervi più gravi: Avete il novo e 'l vecchio Testamento, Se mala cupidigia altro vi grida, Non fate com' agnel che lascia il latte Così Beatrice a me com' ïo scrivo; Lo suo tacere e 'l trasmutar sembiante e sì come saetta che nel segno Quivi la donna mia vid' io sì lieta, E se la stella si cambiò e rise, Come 'n peschiera ch'è tranquilla e pura sì vid' io ben più di mille splendori E sì come ciascuno a noi venìa, Pensa, lettor, se quel che qui s'inizia e per te vederai come da questi «O bene nato a cui veder li troni del lume che per tutto il ciel si spazia Così da un di quelli spirti pii «Io veggio ben sì come tu t'annidi ma non so chi tu se', né perché aggi, Questo diss' io diritto a la lumera Sì come il sol che si cela elli stessi per più letizia sì mi si nascose nel modo che 'l seguente canto canta. Paradiso: Canto VI (indice)[Canto VI, dove, nel cielo di Mercurio, Iustiniano imperadore sotto brevità narra tutti li grandi fatti operati per li Romani sotto la 'nsegna de l'aquila, da l'avvenimento di Enea in Italia infino al tempo di Longobardi; e alcune cose si dicono qui in laude di Romeo visconte del conte Ramondo Berlinghieri di Proenza.] «Poscia che Costantin l'aquila volse cento e cent' anni e più l'uccel di Dio e sotto l'ombra de le sacre penne Cesare fui e son Iustinïano, E prima ch'io a l'ovra fossi attento, ma 'l benedetto Agapito, che fue Io li credetti; e ciò che 'n sua fede era, Tosto che con la Chiesa mossi i piedi, e al mio Belisar commendai l'armi, Or qui a la question prima s'appunta perché tu veggi con quanta ragione Vedi quanta virtù l'ha fatto degno Tu sai ch'el fece in Alba sua dimora E sai ch'el fé dal mal de le Sabine Sai quel ch'el fé portato da li egregi onde Torquato e Quinzio, che dal cirro Esso atterrò l'orgoglio de li Aràbi Sott' esso giovanetti trïunfaro Poi, presso al tempo che tutto 'l ciel volle E quel che fé da Varo infino a Reno, Quel che fé poi ch'elli uscì di Ravenna Inver' la Spagna rivolse lo stuolo, Antandro e Simeonta, onde si mosse, Da indi scese folgorando a Iuba; Di quel che fé col baiulo seguente, Piangene ancor la trista Cleopatra, Con costui corse infino al lito rubro; Ma ciò che 'l segno che parlar mi face diventa in apparenza poco e scuro, ché la viva giustizia che mi spira, Or qui t'ammira in ciò ch'io ti replìco: E quando il dente longobardo morse Omai puoi giudicar di quei cotali L'uno al pubblico segno i gigli gialli Faccian li Ghibellin, faccian lor arte e non l'abbatta esto Carlo novello Molte fïate già pianser li figli Questa picciola stella si correda e quando li disiri poggian quivi, Ma nel commensurar d'i nostri gaggi Quindi addolcisce la viva giustizia Diverse voci fanno dolci note; E dentro a la presente margarita Ma i Provenzai che fecer contra lui Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina, E poi il mosser le parole biece indi partissi povero e vetusto; assai lo loda, e più lo loderebbe». Paradiso: Canto VII (indice)[Canto VII, nel quale Beatrice mostra come la vendetta fatta per Tito de la morte di Gesù Cristo nostro Salvatore fue giusta, essendo la morte di Gesù Cristo giusta per ricomperamento de l'umana generazione e solvimento del peccato del primo padre.] «Osanna, sanctus Deus sabaòth, Così, volgendosi a la nota sua, ed essa e l'altre mossero a sua danza, Io dubitava e dicea 'Dille, dille!' Ma quella reverenza che s'indonna Poco sofferse me cotal Beatrice «Secondo mio infallibile avviso, ma io ti solverò tosto la mente; Per non soffrire a la virtù che vole onde l'umana specie inferma giacque u' la natura, che dal suo fattore Or drizza il viso a quel ch'or si ragiona: ma per sé stessa pur fu ella sbandita La pena dunque che la croce porse e così nulla fu di tanta ingiura, Però d'un atto uscir cose diverse: Non ti dee oramai parer più forte, Ma io veggi' or la tua mente ristretta Tu dici: "Ben discerno ciò ch'i' odo; Questo decreto, frate, sta sepulto Veramente, però ch'a questo segno La divina bontà, che da sé sperne Ciò che da lei sanza mezzo distilla Ciò che da essa sanza mezzo piove Più l'è conforme, e però più le piace; Di tutte queste dote s'avvantaggia Solo il peccato è quel che la disfranca e in sua dignità mai non rivene, Vostra natura, quando peccò tota né ricovrar potiensi, se tu badi o che Dio solo per sua cortesia Ficca mo l'occhio per entro l'abisso Non potea l'uomo ne' termini suoi quanto disobediendo intese ir suso; Dunque a Dio convenia con le vie sue Ma perché l'ovra tanto è più gradita la divina bontà che 'l mondo imprenta, Né tra l'ultima notte e 'l primo die ché più largo fu Dio a dar sé stesso e tutti li altri modi erano scarsi Or per empierti bene ogne disio, Tu dici: "Io veggio l'acqua, io veggio il foco, e queste cose pur furon creature; Li angeli, frate, e 'l paese sincero ma li alimenti che tu hai nomati Creata fu la materia ch'elli hanno; L'anima d'ogne bruto e de le piante ma vostra vita sanza mezzo spira E quinci puoi argomentare ancora che li primi parenti intrambo fensi». Paradiso: Canto VIII (indice)[Canto VIII, nel quale si manifestano alcune questioni per Carlo giovane, re d'Ungheria, il quale si mostroe nel circulo di Venere; e qui comincia la terza parte di questa cantica.] Solea creder lo mondo in suo periclo per che non pur a lei faceano onore ma Dïone onoravano e Cupido, e da costei ond' io principio piglio Io non m'accorsi del salire in ella; E come in fiamma favilla si vede, vid' io in essa luce altre lucerne Di fredda nube non disceser venti, a chi avesse quei lumi divini e dentro a quei che più innanzi appariro Indi si fece l'un più presso a noi Noi ci volgiam coi principi celesti 'Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete'; Poscia che li occhi miei si fuoro offerti rivolsersi a la luce che promessa E quanta e quale vid' io lei far piùe Così fatta, mi disse: «Il mondo m'ebbe La mia letizia mi ti tien celato Assai m'amasti, e avesti ben onde; Quella sinistra riva che si lava e quel corno d'Ausonia che s'imborga Fulgeami già in fronte la corona E la bella Trinacria, che caliga non per Tifeo ma per nascente solfo, se mala segnoria, che sempre accora E se mio frate questo antivedesse, ché veramente proveder bisogna La sua natura, che di larga parca «Però ch'i' credo che l'alta letizia per te si veggia come la vegg' io, Fatto m'hai lieto, e così mi fa chiaro, Questo io a lui; ed elli a me: «S'io posso Lo ben che tutto il regno che tu scandi E non pur le nature provedute per che quantunque quest' arco saetta Se ciò non fosse, il ciel che tu cammine e ciò esser non può, se li 'ntelletti Vuo' tu che questo ver più ti s'imbianchi?». Ond' elli ancora: «Or dì: sarebbe il peggio «E puot' elli esser, se giù non si vive Sì venne deducendo infino a quici; per ch'un nasce Solone e altro Serse, La circular natura, ch'è suggello Quinci addivien ch'Esaù si diparte Natura generata il suo cammino Or quel che t'era dietro t'è davanti: Sempre natura, se fortuna trova E se 'l mondo là giù ponesse mente Ma voi torcete a la religïone onde la traccia vostra è fuor di strada». Paradiso: Canto IX (indice)[Canto IX, nel quale parla madonna Cunizza di Romano, antidicendo alcuna cosa de la Marca di Trevigi; e parla Folco di Marsilia che fue vescovo d'essa.] Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza, ma disse: «Taci e lascia muover li anni»; E già la vita di quel lume santo Ahi anime ingannate e fatture empie, Ed ecco un altro di quelli splendori Li occhi di Bëatrice, ch'eran fermi «Deh, metti al mio voler tosto compenso, Onde la luce che m'era ancor nova, «In quella parte de la terra prava si leva un colle, e non surge molt' alto, D'una radice nacqui e io ed ella: ma lietamente a me medesma indulgo Di questa luculenta e cara gioia questo centesimo anno ancor s'incinqua: E ciò non pensa la turba presente ma tosto fia che Padova al palude e dove Sile e Cagnan s'accompagna, Piangerà Feltro ancora la difalta Troppo sarebbe larga la bigoncia che donerà questo prete cortese Sù sono specchi, voi dicete Troni, Qui si tacette; e fecemi sembiante L'altra letizia, che m'era già nota Per letiziar là sù fulgor s'acquista, «Dio vede tutto, e tuo veder s'inluia», Dunque la voce tua, che 'l ciel trastulla perché non satisface a' miei disii? «La maggior valle in che l'acqua si spanda», tra ' discordanti liti contra 'l sole Di quella valle fu' io litorano Ad un occaso quasi e ad un orto Folco mi disse quella gente a cui ché più non arse la figlia di Belo, né quella Rodopëa che delusa Non però qui si pente, ma si ride, Qui si rimira ne l'arte ch'addorna Ma perché tutte le tue voglie piene Tu vuo' saper chi è in questa lumera Or sappi che là entro si tranquilla Da questo cielo, in cui l'ombra s'appunta Ben si convenne lei lasciar per palma perch' ella favorò la prima gloria La tua città, che di colui è pianta produce e spande il maladetto fiore Per questo l'Evangelio e i dottor magni A questo intende il papa e ' cardinali; Ma Vaticano e l'altre parti elette tosto libere fien de l'avoltero». Paradiso: Canto X (indice)[Canto X, nel quale santo Tommaso d'Aquino de l'ordine de' Frati Predicatori parla nel cielo del Sole; e qui comincia la quarta parte.] Guardando nel suo Figlio con l'Amore quanto per mente e per loco si gira Leva dunque, lettore, a l'alte rote e lì comincia a vagheggiar ne l'arte Vedi come da indi si dirama Che se la strada lor non fosse torta, e se dal dritto più o men lontano Or ti riman, lettor, sovra 'l tuo banco, Messo t'ho innanzi: omai per te ti ciba; Lo ministro maggior de la natura, con quella parte che sù si rammenta e io era con lui; ma del salire È Bëatrice quella che sì scorge Quant' esser convenia da sé lucente Perch' io lo 'ngegno e l'arte e l'uso chiami, E se le fantasie nostre son basse Tal era quivi la quarta famiglia E Bëatrice cominciò: «Ringrazia, Cor di mortal non fu mai sì digesto come a quelle parole mi fec' io; Non le dispiacque; ma sì se ne rise, Io vidi più folgór vivi e vincenti così cinger la figlia di Latona Ne la corte del cielo, ond' io rivegno, e 'l canto di quei lumi era di quelle; Poi, sì cantando, quelli ardenti soli donne mi parver, non da ballo sciolte, E dentro a l'un senti' cominciar: «Quando multiplicato in te tanto resplende, qual ti negasse il vin de la sua fiala Tu vuo' saper di quai piante s'infiora Io fui de li agni de la santa greggia Questi che m'è a destra più vicino, Se sì di tutti li altri esser vuo' certo, Quell' altro fiammeggiare esce del riso L'altro ch'appresso addorna il nostro coro, La quinta luce, ch'è tra noi più bella, entro v'è l'alta mente u' sì profondo Appresso vedi il lume di quel cero Ne l'altra piccioletta luce ride Or se tu l'occhio de la mente trani Per vedere ogne ben dentro vi gode Lo corpo ond' ella fu cacciata giace Vedi oltre fiammeggiar l'ardente spiro Questi onde a me ritorna il tuo riguardo, essa è la luce etterna di Sigieri, Indi, come orologio che ne chiami che l'una parte e l'altra tira e urge, così vid' ïo la gloriosa rota se non colà dove gioir s'insempra. Paradiso: Canto XI (indice)[Canto XI, nel quale il detto frate in gloria di san Francesco sotto brevitate racconta la sua vita tutta, e riprende i suoi frati, ché pochi sono quelli che '1 seguitino.] O insensata cura de' mortali, Chi dietro a iura e chi ad amforismi e chi rubare e chi civil negozio, quando, da tutte queste cose sciolto, Poi che ciascuno fu tornato ne lo E io senti' dentro a quella lumera «Così com' io del suo raggio resplendo, Tu dubbi, e hai voler che si ricerna ove dinanzi dissi: "U' ben s'impingua", La provedenza, che governa il mondo però che andasse ver' lo suo diletto in sé sicura e anche a lui più fida, L'un fu tutto serafico in ardore; De l'un dirò, però che d'amendue Intra Tupino e l'acqua che discende onde Perugia sente freddo e caldo Di questa costa, là dov' ella frange Però chi d'esso loco fa parole, Non era ancor molto lontan da l'orto, ché per tal donna, giovinetto, in guerra e dinanzi a la sua spirital corte Questa, privata del primo marito, né valse udir che la trovò sicura né valse esser costante né feroce, Ma perch' io non proceda troppo chiuso, La lor concordia e i lor lieti sembianti, tanto che 'l venerabile Bernardo Oh ignota ricchezza! oh ben ferace! Indi sen va quel padre e quel maestro Né li gravò viltà di cuor le ciglia ma regalmente sua dura intenzione Poi che la gente poverella crebbe di seconda corona redimita E poi che, per la sete del martiro, e per trovare a conversione acerba nel crudo sasso intra Tevero e Arno Quando a colui ch'a tanto ben sortillo a' frati suoi, sì com' a giuste rede, e del suo grembo l'anima preclara Pensa oramai qual fu colui che degno e questo fu il nostro patrïarca; Ma 'l suo pecuglio di nova vivanda e quanto le sue pecore remote Ben son di quelle che temono 'l danno Or, se le mie parole non son fioche, in parte fia la tua voglia contenta, "U' ben s'impingua, se non si vaneggia"». Paradiso: Canto XII (indice)[Canto XII, nel quale frate Bonaventura da Bagnoregio in gloria di santo Dominico parla e brevemente la sua vita narra.] Sì tosto come l'ultima parola e nel suo giro tutta non si volse canto che tanto vince nostre muse, Come si volgon per tenera nube nascendo di quel d'entro quel di fori, e fanno qui la gente esser presaga, così di quelle sempiterne rose Poi che 'l tripudio e l'altra festa grande, insieme a punto e a voler quetarsi, del cor de l'una de le luci nove e cominciò: «L'amor che mi fa bella Degno è che, dov' è l'un, l'altro s'induca: L'essercito di Cristo, che sì caro quando lo 'mperador che sempre regna e, come è detto, a sua sposa soccorse In quella parte ove surge ad aprire non molto lungi al percuoter de l'onde siede la fortunata Calaroga dentro vi nacque l'amoroso drudo e come fu creata, fu repleta Poi che le sponsalizie fuor compiute la donna che per lui l'assenso diede, e perché fosse qual era in costrutto, Domenico fu detto; e io ne parlo Ben parve messo e famigliar di Cristo: Spesse fïate fu tacito e desto Oh padre suo veramente Felice! Non per lo mondo, per cui mo s'affanna in picciol tempo gran dottor si feo; E a la sedia che fu già benigna non dispensare o due o tre per sei, addimandò, ma contro al mondo errante Poi, con dottrina e con volere insieme, e ne li sterpi eretici percosse Di lui si fecer poi diversi rivi Se tal fu l'una rota de la biga ben ti dovrebbe assai esser palese Ma l'orbita che fé la parte somma La sua famiglia, che si mosse dritta e tosto si vedrà de la ricolta Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio ma non fia da Casal né d'Acquasparta, Io son la vita di Bonaventura Illuminato e Augustin son quici, Ugo da San Vittore è qui con elli, Natàn profeta e 'l metropolitano Rabano è qui, e lucemi dallato Ad inveggiar cotanto paladino e mosse meco questa compagnia». Paradiso: Canto XIII (indice)[Canto XIII, nel quale san Tommaso d'Aquino, de l'ordine d'i frati predicatori solve una questione toccata di sopra da Salamone.] Imagini, chi bene intender cupe quindici stelle che 'n diverse plage imagini quel carro a cu' il seno imagini la bocca di quel corno aver fatto di sé due segni in cielo, e l'un ne l'altro aver li raggi suoi, e avrà quasi l'ombra de la vera poi ch'è tanto di là da nostra usanza, Lì si cantò non Bacco, non Peana, Compié 'l cantare e 'l volger sua misura; Ruppe il silenzio ne' concordi numi e disse: «Quando l'una paglia è trita, Tu credi che nel petto onde la costa e in quel che, forato da la lancia, quantunque a la natura umana lece e però miri a ciò ch'io dissi suso, Or apri li occhi a quel ch'io ti rispondo, Ciò che non more e ciò che può morire ché quella viva luce che sì mea per sua bontate il suo raggiare aduna, Quindi discende a l'ultime potenze e queste contingenze essere intendo La cera di costoro e chi la duce Ond' elli avvien ch'un medesimo legno, Se fosse a punto la cera dedutta ma la natura la dà sempre scema, Però se 'l caldo amor la chiara vista Così fu fatta già la terra degna sì ch'io commendo tua oppinïone, Or s'i' non procedesse avanti piùe, Ma perché paia ben ciò che non pare, Non ho parlato sì, che tu non posse non per sapere il numero in che enno non si est dare primum motum esse, Onde, se ciò ch'io dissi e questo note, e se al "surse" drizzi li occhi chiari, Con questa distinzion prendi 'l mio detto; E questo ti sia sempre piombo a' piedi, ché quelli è tra li stolti bene a basso, perch' elli 'ncontra che più volte piega Vie più che 'ndarno da riva si parte, E di ciò sono al mondo aperte prove sì fé Sabellio e Arrio e quelli stolti Non sien le genti, ancor, troppo sicure ch'i' ho veduto tutto 'l verno prima e legno vidi già dritto e veloce Non creda donna Berta e ser Martino, ché quel può surgere, e quel può cadere». Paradiso: Canto XIV (indice)[Canto XIV, nel quale Salamone solve alcuna cosa dubitata; e montasi ne la stella di Marte. La quinta parte comincia qui.] Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro ne la mia mente fé sùbito caso per la similitudine che nacque «A costui fa mestieri, e nol vi dice Diteli se la luce onde s'infiora e se rimane, dite come, poi Come, da più letizia pinti e tratti, così, a l'orazion pronta e divota, Qual si lamenta perché qui si moia Quell' uno e due e tre che sempre vive tre volte era cantato da ciascuno E io udi' ne la luce più dia risponder: «Quanto fia lunga la festa La sua chiarezza séguita l'ardore; Come la carne glorïosa e santa per che s'accrescerà ciò che ne dona onde la visïon crescer convene, Ma sì come carbon che fiamma rende, così questo folgór che già ne cerchia né potrà tanta luce affaticarne: Tanto mi parver sùbiti e accorti forse non pur per lor, ma per le mamme, Ed ecco intorno, di chiarezza pari, E sì come al salir di prima sera parvemi lì novelle sussistenze Oh vero sfavillar del Santo Spiro! Ma Bëatrice sì bella e ridente Quindi ripreser li occhi miei virtute Ben m'accors' io ch'io era più levato, Con tutto 'l core e con quella favella E non er' anco del mio petto essausto ché con tanto lucore e tanto robbi Come distinta da minori e maggi sì costellati facean nel profondo Qui vince la memoria mia lo 'ngegno; ma chi prende sua croce e segue Cristo, Di corno in corno e tra la cima e 'l basso così si veggion qui diritte e torte, moversi per lo raggio onde si lista E come giga e arpa, in tempra tesa così da' lumi che lì m'apparinno Ben m'accors' io ch'elli era d'alte lode, Ïo m'innamorava tanto quinci, Forse la mia parola par troppo osa, ma chi s'avvede che i vivi suggelli escusar puommi di quel ch'io m'accuso perché si fa, montando, più sincero. Paradiso: Canto XV (indice)[Canto XV, nel quale messere Cacciaguida fiorentino parla laudando l'antico costume di Fiorenza, in vituperio del presente vivere d'essa cittade di Fiorenza.] Benigna volontade in che si liqua silenzio puose a quella dolce lira, Come saranno a' giusti preghi sorde Bene è che sanza termine si doglia Quale per li seren tranquilli e puri e pare stella che tramuti loco, tale dal corno che 'n destro si stende né si partì la gemma dal suo nastro, Sì pïa l'ombra d'Anchise si porse, «O sanguis meus, o superinfusa Così quel lume: ond' io m'attesi a lui; ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso Indi, a udire e a veder giocondo, né per elezïon mi si nascose, E quando l'arco de l'ardente affetto la prima cosa che per me s'intese, E seguì: «Grato e lontano digiuno, solvuto hai, figlio, dentro a questo lume Tu credi che a me tuo pensier mei e però ch'io mi sia e perch' io paia Tu credi 'l vero; ché i minori e ' grandi ma perché 'l sacro amore in che io veglio la voce tua sicura, balda e lieta Io mi volsi a Beatrice, e quella udio Poi cominciai così: «L'affetto e 'l senno, però che 'l sol che v'allumò e arse, Ma voglia e argomento ne' mortali, ond' io, che son mortal, mi sento in questa Ben supplico io a te, vivo topazio «O fronda mia in che io compiacemmi Poscia mi disse: «Quel da cui si dice mio figlio fu e tuo bisavol fue: Fiorenza dentro da la cerchia antica, Non avea catenella, non corona, Non faceva, nascendo, ancor paura Non avea case di famiglia vòte; Non era vinto ancora Montemalo Bellincion Berti vid' io andar cinto e vidi quel d'i Nerli e quel del Vecchio Oh fortunate! ciascuna era certa L'una vegghiava a studio de la culla, l'altra, traendo a la rocca la chioma, Saria tenuta allor tal maraviglia A così riposato, a così bello Maria mi diè, chiamata in alte grida; Moronto fu mio frate ed Eliseo; Poi seguitai lo 'mperador Currado; Dietro li andai incontro a la nequizia Quivi fu' io da quella gente turpa e venni dal martiro a questa pace». Paradiso: Canto XVI (indice)[Canto XVI, nel quale il sopradetto messer Cacciaguida racconta intorno di quaranta famiglie onorabili al suo tempo ne la cittade di Fiorenza, de le quali al presente non è ricordo né fama.] O poca nostra nobiltà di sangue, mirabil cosa non mi sarà mai: Ben se' tu manto che tosto raccorce: Dal 'voi' che prima a Roma s'offerie, onde Beatrice, ch'era un poco scevra, Io cominciai: «Voi siete il padre mio; Per tanti rivi s'empie d'allegrezza Ditemi dunque, cara mia primizia, ditemi de l'ovil di San Giovanni Come s'avviva a lo spirar d'i venti e come a li occhi miei si fé più bella, dissemi: «Da quel dì che fu detto 'Ave' al suo Leon cinquecento cinquanta Li antichi miei e io nacqui nel loco Basti d'i miei maggiori udirne questo: Tutti color ch'a quel tempo eran ivi Ma la cittadinanza, ch'è or mista Oh quanto fora meglio esser vicine che averle dentro e sostener lo puzzo Se la gente ch'al mondo più traligna tal fatto è fiorentino e cambia e merca, sariesi Montemurlo ancor de' Conti; Sempre la confusion de le persone e cieco toro più avaccio cade Se tu riguardi Luni e Orbisaglia udir come le schiatte si disfanno Le vostre cose tutte hanno lor morte, E come 'l volger del ciel de la luna per che non dee parer mirabil cosa Io vidi li Ughi e vidi i Catellini, e vidi così grandi come antichi, Sovra la porta ch'al presente è carca erano i Ravignani, ond' è disceso Quel de la Pressa sapeva già come Grand' era già la colonna del Vaio, Lo ceppo di che nacquero i Calfucci Oh quali io vidi quei che son disfatti Così facieno i padri di coloro L'oltracotata schiatta che s'indraca già venìa sù, ma di picciola gente; Già era 'l Caponsacco nel mercato Io dirò cosa incredibile e vera: Ciascun che de la bella insegna porta da esso ebbe milizia e privilegio; Già eran Gualterotti e Importuni; La casa di che nacque il vostro fleto, era onorata, essa e suoi consorti: Molti sarebber lieti, che son tristi, Ma conveniesi, a quella pietra scema Con queste genti, e con altre con esse, Con queste genti vid' io glorïoso né per divisïon fatto vermiglio». Paradiso: Canto XVII (indice)[Canto XVII, nel quale il predetto messer Cacciaguida solve l'animo de l'auttore da una paura e confortalo a fare questa opera.] Qual venne a Climenè, per accertarsi tal era io, e tal era sentito Per che mia donna «Manda fuor la vampa non perché nostra conoscenza cresca «O cara piota mia che sì t'insusi, così vedi le cose contingenti mentre ch'io era a Virgilio congiunto dette mi fuor di mia vita futura per che la voglia mia saria contenta Così diss' io a quella luce stessa Né per ambage, in che la gente folle ma per chiare parole e con preciso «La contingenza, che fuor del quaderno necessità però quindi non prende Da indi, sì come viene ad orecchia Qual si partio Ipolito d'Atene Questo si vuole e questo già si cerca, La colpa seguirà la parte offensa Tu lascerai ogne cosa diletta Tu proverai sì come sa di sale E quel che più ti graverà le spalle, che tutta ingrata, tutta matta ed empia Di sua bestialitate il suo processo Lo primo tuo refugio e 'l primo ostello ch'in te avrà sì benigno riguardo, Con lui vedrai colui che 'mpresso fue, Non se ne son le genti ancora accorte ma pria che 'l Guasco l'alto Arrigo inganni, Le sue magnificenze conosciute A lui t'aspetta e a' suoi benefici; e portera'ne scritto ne la mente Poi giunse: «Figlio, queste son le chiose Non vo' però ch'a' tuoi vicini invidie, Poi che, tacendo, si mostrò spedita io cominciai, come colui che brama, «Ben veggio, padre mio, sì come sprona per che di provedenza è buon ch'io m'armi, Giù per lo mondo sanza fine amaro, e poscia per lo ciel, di lume in lume, e s'io al vero son timido amico, La luce in che rideva il mio tesoro indi rispuose: «Coscïenza fusca Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, Ché se la voce tua sarà molesta Questo tuo grido farà come vento, Però ti son mostrate in queste rote, che l'animo di quel ch'ode, non posa né per altro argomento che non paia». Paradiso: Canto XVIII (indice)[Canto XVIII, nel quale si monta ne la stella di Giove, e narrasi come li luminari spirituali figuravano mirabilmente.] Già si godeva solo del suo verbo e quella donna ch'a Dio mi menava Io mi rivolsi a l'amoroso suono non perch' io pur del mio parlar diffidi, Tanto poss' io di quel punto ridire, fin che 'l piacere etterno, che diretto Vincendo me col lume d'un sorriso, Come si vede qui alcuna volta così nel fiammeggiar del folgór santo, El cominciò: «In questa quinta soglia spiriti son beati, che giù, prima Però mira ne' corni de la croce: Io vidi per la croce un lume tratto E al nome de l'alto Macabeo Così per Carlo Magno e per Orlando Poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo Indi, tra l'altre luci mota e mista, Io mi rivolsi dal mio destro lato e vidi le sue luci tanto mere, E come, per sentir più dilettanza sì m'accors' io che 'l mio girare intorno E qual è 'l trasmutare in picciol varco tal fu ne li occhi miei, quando fui vòlto, Io vidi in quella giovïal facella E come augelli surti di rivera, sì dentro ai lumi sante creature Prima, cantando, a sua nota moviensi; O diva Pegasëa che li 'ngegni illustrami di te, sì ch'io rilevi Mostrarsi dunque in cinque volte sette 'DILIGITE IUSTITIAM', primai Poscia ne l'emme del vocabol quinto E vidi scendere altre luci dove Poi, come nel percuoter d'i ciocchi arsi resurger parver quindi più di mille e quïetata ciascuna in suo loco, Quei che dipinge lì, non ha chi 'l guidi; L'altra bëatitudo, che contenta O dolce stella, quali e quante gemme Per ch'io prego la mente in che s'inizia sì ch'un'altra fïata omai s'adiri O milizia del ciel cu' io contemplo, Già si solea con le spade far guerra; Ma tu che sol per cancellare scrivi, Ben puoi tu dire: «I' ho fermo 'l disiro ch'io non conosco il pescator né Polo». Paradiso: Canto XIX (indice)[Canto XIX, nel quale li spiriti ch'erano ne la stella di Iove insieme conglutinati in forma d'aguglia, ad una voce solvono uno grande dubbio, e abominano e infamano tutti li re cristiani che regnavano ne l'anno di Cristo MCCC.] Parea dinanzi a me con l'ali aperte parea ciascuna rubinetto in cui E quel che mi convien ritrar testeso, ch'io vidi e anche udi' parlar lo rostro, E cominciò: «Per esser giusto e pio e in terra lasciai la mia memoria Così un sol calor di molte brage Ond' io appresso: «O perpetüi fiori solvetemi, spirando, il gran digiuno Ben so io che, se 'n cielo altro reame Sapete come attento io m'apparecchio Quasi falcone ch'esce del cappello, vid' io farsi quel segno, che di laude Poi cominciò: «Colui che volse il sesto non poté suo valor sì fare impresso E ciò fa certo che 'l primo superbo, e quinci appar ch'ogne minor natura Dunque vostra veduta, che convene non pò da sua natura esser possente Però ne la giustizia sempiterna che, ben che da la proda veggia il fondo, Lume non è, se non vien dal sereno Assai t'è mo aperta la latebra ché tu dicevi: "Un uom nasce a la riva e tutti suoi voleri e atti buoni Muore non battezzato e sanza fede: Or tu chi se', che vuo' sedere a scranna, Certo a colui che meco s'assottiglia, Oh terreni animali! oh menti grosse! Cotanto è giusto quanto a lei consuona: Quale sovresso il nido si rigira cotal si fece, e sì leväi i cigli, Roteando cantava, e dicea: «Quali Poi si quetaro quei lucenti incendi esso ricominciò: «A questo regno Ma vedi: molti gridan "Cristo, Cristo!", e tai Cristian dannerà l'Etïòpe, Che poran dir li Perse a' vostri regi, Lì si vedrà, tra l'opere d'Alberto, Lì si vedrà il duol che sovra Senna Lì si vedrà la superbia ch'asseta, Vedrassi la lussuria e 'l viver molle Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme Vedrassi l'avarizia e la viltate e a dare ad intender quanto è poco, E parranno a ciascun l'opere sozze E quel di Portogallo e di Norvegia Oh beata Ungheria, se non si lascia E creder de' ciascun che già, per arra che dal fianco de l'altre non si scosta». Paradiso: Canto XX (indice)[Canto XX, nel quale ancora suonano nel becco de l'Aquila certe parole per le quali apprende di conoscere alcuni di quelli spirti de li quali quella Aquila è composta.] Quando colui che tutto 'l mondo alluma lo ciel, che sol di lui prima s'accende, e questo atto del ciel mi venne a mente, però che tutte quelle vive luci, O dolce amor che di riso t'ammanti, Poscia che i cari e lucidi lapilli udir mi parve un mormorar di fiume E come suono al collo de la cetra così, rimosso d'aspettare indugio, Fecesi voce quivi, e quindi uscissi «La parte in me che vede e pate il sole perché d'i fuochi ond' io figura fommi, Colui che luce in mezzo per pupilla, ora conosce il merto del suo canto, Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio, ora conosce quanto caro costa E quel che segue in la circunferenza ora conosce che 'l giudicio etterno L'altro che segue, con le leggi e meco, ora conosce come il mal dedutto E quel che vedi ne l'arco declivo, ora conosce come s'innamora Chi crederebbe giù nel mondo errante Ora conosce assai di quel che 'l mondo Quale allodetta che 'n aere si spazia tal mi sembiò l'imago de la 'mprenta E avvegna ch'io fossi al dubbiar mio ma de la bocca, «Che cose son queste?», Poi appresso, con l'occhio più acceso, «Io veggio che tu credi queste cose Fai come quei che la cosa per nome Regnum celorum vïolenza pate non a guisa che l'omo a l'om sobranza, La prima vita del ciglio e la quinta D'i corpi suoi non uscir, come credi, Ché l'una de lo 'nferno, u' non si riede di viva spene, che mise la possa L'anima glorïosa onde si parla, e credendo s'accese in tanto foco L'altra, per grazia che da sì profonda tutto suo amor là giù pose a drittura: ond' ei credette in quella, e non sofferse Quelle tre donne li fur per battesmo O predestinazion, quanto remota E voi, mortali, tenetevi stretti ed ènne dolce così fatto scemo, Così da quella imagine divina, E come a buon cantor buon citarista sì, mentre ch'e' parlò, sì mi ricorda con le parole mover le fiammette. Paradiso: Canto XXI (indice)[Canto XXI, nel quale si monta ne la stella di Saturno, che è il settimo pianeto; e qui comincia la settima parte, e come Pietro Dammiano solve alcune questioni.] Già eran li occhi miei rifissi al volto E quella non ridea; ma «S'io ridessi», ché la bellezza mia, che per le scale se non si temperasse, tanto splende, Noi sem levati al settimo splendore, Ficca di retro a li occhi tuoi la mente, Qual savesse qual era la pastura conoscerebbe quanto m'era a grato Dentro al cristallo che 'l vocabol porta, di color d'oro in che raggio traluce Vidi anche per li gradi scender giuso E come, per lo natural costume, poi altre vanno via sanza ritorno, tal modo parve me che quivi fosse E quel che presso più ci si ritenne, Ma quella ond' io aspetto il come e 'l quando Per ch'ella, che vedëa il tacer mio E io incominciai: «La mia mercede vita beata che ti stai nascosta e dì perché si tace in questa rota «Tu hai l'udir mortal sì come il viso», Giù per li gradi de la scala santa né più amor mi fece esser più presta, Ma l'alta carità, che ci fa serve «Io veggio ben», diss' io, «sacra lucerna, ma questo è quel ch'a cerner mi par forte, Né venni prima a l'ultima parola, poi rispuose l'amor che v'era dentro: la cui virtù, col mio veder congiunta, Quinci vien l'allegrezza ond' io fiammeggio; Ma quell' alma nel ciel che più si schiara, però che sì s'innoltra ne lo abisso E al mondo mortal, quando tu riedi, La mente, che qui luce, in terra fumma; Sì mi prescrisser le parole sue, «Tra ' due liti d'Italia surgon sassi, e fanno un gibbo che si chiama Catria, Così ricominciommi il terzo sermo; che pur con cibi di liquor d'ulivi Render solea quel chiostro a questi cieli In quel loco fu' io Pietro Damiano, Poca vita mortal m'era rimasa, Venne Cefàs e venne il gran vasello Or voglion quinci e quindi chi rincalzi Cuopron d'i manti loro i palafreni, A questa voce vid' io più fiammelle Dintorno a questa vennero e fermarsi, né io lo 'ntesi, sì mi vinse il tuono. Paradiso: Canto XXII (indice)[Canto XXII, nel quale si tratta di quelli medesimi che nel precedente capitolo, qui sotto il titolo di Santo Maccario e di Santo Romoaldo; e infine dispitta il mondo e la sua picciolezza e le cose mondane, ripetendo e mostrando tutti li pianeti per li quali è intrato; ed entra con Beatrice nel segno d'i Gemini; e qui prende l'ottava parte di questa terza cantica.] Oppresso di stupore, a la mia guida e quella, come madre che soccorre mi disse: «Non sai tu che tu se' in cielo? Come t'avrebbe trasmutato il canto, nel qual, se 'nteso avessi i prieghi suoi, La spada di qua sù non taglia in fretta Ma rivolgiti omai inverso altrui; Come a lei piacque, li occhi ritornai, Io stava come quei che 'n sé repreme e la maggiore e la più luculenta Poi dentro a lei udi': «Se tu vedessi Ma perché tu, aspettando, non tarde Quel monte a cui Cassino è ne la costa e quel son io che sù vi portai prima e tanta grazia sopra me relusse, Questi altri fuochi tutti contemplanti Qui è Maccario, qui è Romoaldo, E io a lui: «L'affetto che dimostri così m'ha dilatata mia fidanza, Però ti priego, e tu, padre, m'accerta Ond' elli: «Frate, il tuo alto disio Ivi è perfetta, matura e intera perché non è in loco e non s'impola; Infin là sù la vide il patriarca Ma, per salirla, mo nessun diparte Le mura che solieno esser badia Ma grave usura tanto non si tolle ché quantunque la Chiesa guarda, tutto La carne d'i mortali è tanto blanda, Pier cominciò sanz' oro e sanz' argento, e se guardi 'l principio di ciascuno, Veramente Iordan vòlto retrorso Così mi disse, e indi si raccolse La dolce donna dietro a lor mi pinse né mai qua giù dove si monta e cala S'io torni mai, lettore, a quel divoto tu non avresti in tanto tratto e messo O glorïose stelle, o lume pregno con voi nasceva e s'ascondeva vosco e poi, quando mi fu grazia largita A voi divotamente ora sospira «Tu se' sì presso a l'ultima salute», e però, prima che tu più t'inlei, sì che 'l tuo cor, quantunque può, giocondo Col viso ritornai per tutte quante e quel consiglio per migliore approbo Vidi la figlia di Latona incensa L'aspetto del tuo nato, Iperïone, Quindi m'apparve il temperar di Giove e tutti e sette mi si dimostraro L'aiuola che ci fa tanto feroci, poscia rivolsi li occhi a li occhi belli. Paradiso: Canto XXIII (indice)[Canto XXIII, dove si tratta come l'auttore vide la Beata Virgine Maria e li abitatori de la celestiale corte, de la quale mirabilemente favella in questo canto; e qui si prende la nona parte di questa terza cantica.] Come l'augello, intra l'amate fronde, che, per veder li aspetti disïati previene il tempo in su aperta frasca, così la donna mïa stava eretta sì che, veggendola io sospesa e vaga, Ma poco fu tra uno e altro quando, e Bëatrice disse: «Ecco le schiere Pariemi che 'l suo viso ardesse tutto, Quale ne' plenilunïi sereni vid' i' sopra migliaia di lucerne e per la viva luce trasparea Oh Bëatrice, dolce guida e cara! Quivi è la sapïenza e la possanza Come foco di nube si diserra la mente mia così, tra quelle dape «Apri li occhi e riguarda qual son io; Io era come quei che si risente quand' io udi' questa proferta, degna Se mo sonasser tutte quelle lingue per aiutarmi, al millesmo del vero e così, figurando il paradiso, Ma chi pensasse il ponderoso tema non è pareggio da picciola barca «Perché la faccia mia sì t'innamora, Quivi è la rosa in che 'l verbo divino Così Beatrice; e io, che a' suoi consigli Come a raggio di sol, che puro mei vid' io così più turbe di splendori, O benigna vertù che sì li 'mprenti, Il nome del bel fior ch'io sempre invoco e come ambo le luci mi dipinse per entro il cielo scese una facella, Qualunque melodia più dolce suona comparata al sonar di quella lira «Io sono amore angelico, che giro e girerommi, donna del ciel, mentre Così la circulata melodia Lo real manto di tutti i volumi avea sopra di noi l'interna riva però non ebber li occhi miei potenza E come fantolin che 'nver' la mamma ciascun di quei candori in sù si stese Indi rimaser lì nel mio cospetto, Oh quanta è l'ubertà che si soffolce Quivi si vive e gode del tesoro Quivi trïunfa, sotto l'alto Filio colui che tien le chiavi di tal gloria. Paradiso: Canto XXIV (indice)[Canto XXIV, dove si tratta de la nona e ultima parte di questa ultima cantica; ne la quale san Pietro Appostolo a priego di Beatrice essamina l'auttore sopra la fede cattolica.] «O sodalizio eletto a la gran cena se per grazia di Dio questi preliba ponete mente a l'affezione immensa Così Beatrice; e quelle anime liete E come cerchi in tempra d'orïuoli così quelle carole, differente- Di quella ch'io notai di più carezza e tre fïate intorno di Beatrice Però salta la penna e non lo scrivo: «O santa suora mia che sì ne prieghe Poscia fermato, il foco benedetto Ed ella: «O luce etterna del gran viro tenta costui di punti lievi e gravi, S'elli ama bene e bene spera e crede, ma perché questo regno ha fatto civi Sì come il baccialier s'arma e non parla così m'armava io d'ogne ragione «Dì, buon Cristiano, fatti manifesto: poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte «La Grazia che mi dà ch'io mi confessi», E seguitai: «Come 'l verace stilo fede è sustanza di cose sperate Allora udi': «Dirittamente senti, E io appresso: «Le profonde cose che l'esser loro v'è in sola credenza, E da questa credenza ci convene Allora udi': «Se quantunque s'acquista Così spirò di quello amore acceso; ma dimmi se tu l'hai ne la tua borsa». Appresso uscì de la luce profonda onde ti venne?». E io: «La larga ploia è silogismo che la m'ha conchiusa Io udi' poi: «L'antica e la novella E io: «La prova che 'l ver mi dischiude, Risposto fummi: «Dì, chi t'assicura «Se 'l mondo si rivolse al cristianesmo», ché tu intrasti povero e digiuno Finito questo, l'alta corte santa E quel baron che sì di ramo in ramo, ricominciò: «La Grazia, che donnea sì ch'io approvo ciò che fuori emerse; «O santo padre, e spirito che vedi comincia' io, «tu vuo' ch'io manifesti E io rispondo: Io credo in uno Dio e a tal creder non ho io pur prove per Moïsè, per profeti e per salmi, e credo in tre persone etterne, e queste De la profonda condizion divina Quest' è 'l principio, quest' è la favilla Come 'l segnor ch'ascolta quel che i piace, così, benedicendomi cantando, io avea detto: sì nel dir li piacqui! Paradiso: Canto XXV (indice)[Canto XXV, che tratta come l'auttore parla con Beatrice e con santo Iacopo Maggiore sopra certe questioni de le quali santo Iacopo solve la prima.] Se mai continga che 'l poema sacro vinca la crudeltà che fuor mi serra con altra voce omai, con altro vello però che ne la fede, che fa conte Indi si mosse un lume verso noi e la mia donna, piena di letizia, Sì come quando il colombo si pone così vid' ïo l'un da l'altro grande Ma poi che 'l gratular si fu assolto, Ridendo allora Bëatrice disse: fa risonar la spene in questa altezza: «Leva la testa e fa che t'assicuri: Questo conforto del foco secondo «Poi che per grazia vuol che tu t'affronti sì che, veduto il ver di questa corte, dì quel ch'ell' è, dì come se ne 'nfiora E quella pïa che guidò le penne «La Chiesa militante alcun figliuolo però li è conceduto che d'Egitto Li altri due punti, che non per sapere a lui lasc' io, ché non li saran forti Come discente ch'a dottor seconda «Spene», diss' io, «è uno attender certo Da molte stelle mi vien questa luce; 'Sperino in te', ne la sua tëodia Tu mi stillasti, con lo stillar suo, Mentr' io diceva, dentro al vivo seno Indi spirò: «L'amore ond' ïo avvampo vuol ch'io respiri a te che ti dilette E io: «Le nove e le scritture antiche Dice Isaia che ciascuna vestita e 'l tuo fratello assai vie più digesta, E prima, appresso al fin d'este parole, Poscia tra esse un lume si schiarì E come surge e va ed entra in ballo così vid' io lo schiarato splendore Misesi lì nel canto e ne la rota; «Questi è colui che giacque sopra 'l petto La donna mia così; né però piùe Qual è colui ch'adocchia e s'argomenta tal mi fec' ïo a quell' ultimo foco In terra è terra il mio corpo, e saragli Con le due stole nel beato chiostro A questa voce l'infiammato giro sì come, per cessar fatica o rischio, Ahi quanto ne la mente mi commossi, presso di lei, e nel mondo felice! Paradiso: Canto XXVI (indice)[Canto XXVI, nel quale l'auttore ne conforta seguitare lo innefabile amore, e dove trova Adamo il nostro primo padre, dicente a lui il tempo de la sua felicitade e infelicitade.] Mentr' io dubbiava per lo viso spento, dicendo: «Intanto che tu ti risense Comincia dunque; e dì ove s'appunta perché la donna che per questa dia Io dissi: «Al suo piacere e tosto e tardo Lo ben che fa contenta questa corte, Quella medesma voce che paura e disse: «Certo a più angusto vaglio E io: «Per filosofici argomenti ché 'l bene, in quanto ben, come s'intende, Dunque a l'essenza ov' è tanto avvantaggio, più che in altra convien che si mova Tal vero a l'intelletto mïo sterne Sternel la voce del verace autore, Sternilmi tu ancora, incominciando E io udi': «Per intelletto umano Ma dì ancor se tu senti altre corde Non fu latente la santa intenzione Però ricominciai: «Tutti quei morsi ché l'essere del mondo e l'esser mio, con la predetta conoscenza viva, Le fronde onde s'infronda tutto l'orto Sì com' io tacqui, un dolcissimo canto E come a lume acuto si disonna e lo svegliato ciò che vede aborre, così de li occhi miei ogne quisquilia onde mei che dinanzi vidi poi; E la mia donna: «Dentro da quei rai Come la fronda che flette la cima fec' io in tanto in quant' ella diceva, E cominciai: «O pomo che maturo divoto quanto posso a te supplìco Talvolta un animal coverto broglia, e similmente l'anima primaia Indi spirò: «Sanz' essermi proferta perch' io la veggio nel verace speglio Tu vuogli udir quant' è che Dio mi puose e quanto fu diletto a li occhi miei, Or, figliuol mio, non il gustar del legno Quindi onde mosse tua donna Virgilio, e vidi lui tornare a tutt' i lumi La lingua ch'io parlai fu tutta spenta ché nullo effetto mai razïonabile, Opera naturale è ch'uom favella; Pria ch'i' scendessi a l'infernale ambascia, e El si chiamò poi: e ciò convene, Nel monte che si leva più da l'onda, come 'l sol muta quadra, l'ora sesta». Paradiso: Canto XXVII (indice)[Canto XXVII, dove tratta sì come santo Pietro appostolo, proverbiando li suoi successori papi, adempie l'animo de l'auttore di questo libro.] 'Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo', Ciò ch'io vedeva mi sembiava un riso Oh gioia! oh ineffabile allegrezza! Dinanzi a li occhi miei le quattro face e tal ne la sembianza sua divenne, La provedenza, che quivi comparte quand' ïo udi': «Se io mi trascoloro, Quelli ch'usurpa in terra il luogo mio, fatt' ha del cimitero mio cloaca Di quel color che per lo sole avverso E come donna onesta che permane così Beatrice trasmutò sembianza; Poi procedetter le parole sue «Non fu la sposa di Cristo allevata ma per acquisto d'esto viver lieto Non fu nostra intenzion ch'a destra mano né che le chiavi che mi fuor concesse, né ch'io fossi figura di sigillo In vesta di pastor lupi rapaci Del sangue nostro Caorsini e Guaschi Ma l'alta provedenza, che con Scipio e tu, figliuol, che per lo mortal pondo Sì come di vapor gelati fiocca in sù vid' io così l'etera addorno Lo viso mio seguiva i suoi sembianti, Onde la donna, che mi vide assolto Da l'ora ch'ïo avea guardato prima sì ch'io vedea di là da Gade il varco E più mi fora discoverto il sito La mente innamorata, che donnea e se natura o arte fé pasture tutte adunate, parrebber nïente E la virtù che lo sguardo m'indulse, Le parti sue vivissime ed eccelse Ma ella, che vedëa 'l mio disire, «La natura del mondo, che quïeta e questo cielo non ha altro dove Luce e amor d'un cerchio lui comprende, Non è suo moto per altro distinto, e come il tempo tegna in cotal testo Oh cupidigia, che i mortali affonde Ben fiorisce ne li uomini il volere; Fede e innocenza son reperte Tale, balbuzïendo ancor, digiuna, e tal, balbuzïendo, ama e ascolta Così si fa la pelle bianca nera Tu, perché non ti facci maraviglia, Ma prima che gennaio tutto si sverni che la fortuna che tanto s'aspetta, e vero frutto verrà dopo 'l fiore». Paradiso: Canto XXVIII (indice)[Canto XXVIII, nel quale Beatrice distingue a l'auttore li nove ordini de li angeli gloriosi che sono nel nono cielo e il loro offizio.] Poscia che 'ncontro a la vita presente come in lo specchio fiamma di doppiero e sé rivolge per veder se 'l vetro così la mia memoria si ricorda E com' io mi rivolsi e furon tocchi un punto vidi che raggiava lume e quale stella par quinci più poca, Forse cotanto quanto pare appresso distante intorno al punto un cerchio d'igne e questo era d'un altro circumcinto, Sopra seguiva il settimo sì sparto Così l'ottavo e 'l nono; e chiascheduno e quello avea la fiamma più sincera La donna mia, che mi vedëa in cura Mira quel cerchio che più li è congiunto; E io a lei: «Se 'l mondo fosse posto ma nel mondo sensibile si puote Onde, se 'l mio disir dee aver fine udir convienmi ancor come l'essemplo «Se li tuoi diti non sono a tal nodo Così la donna mia; poi disse: «Piglia Li cerchi corporai sono ampi e arti Maggior bontà vuol far maggior salute; Dunque costui che tutto quanto rape per che, se tu a la virtù circonde tu vederai mirabil consequenza Come rimane splendido e sereno per che si purga e risolve la roffia così fec'ïo, poi che mi provide E poi che le parole sue restaro, L'incendio suo seguiva ogne scintilla; Io sentiva osannar di coro in coro E quella che vedëa i pensier dubi Così veloci seguono i suoi vimi, Quelli altri amori che 'ntorno li vonno, e dei saper che tutti hanno diletto Quinci si può veder come si fonda e del vedere è misura mercede, L'altro ternaro, che così germoglia perpetüalemente 'Osanna' sberna In essa gerarcia son l'altre dee: Poscia ne' due penultimi tripudi Questi ordini di sù tutti s'ammirano, E Dïonisio con tanto disio Ma Gregorio da lui poi si divise; E se tanto secreto ver proferse con altro assai del ver di questi giri». Paradiso: Canto XXIX (indice)[Canto XXIX, ove si tratta de la superbia e cacciamento de li rei e malvagi angeli e de la dilezione e gloria de' buoni; e infine si riprende tutti coloro che predicando si partono dal santo Evangelio e dicono favole; e contiencisi in questo canto certe declaragioni di certe oscuritadi del celestiale regno.] Quando ambedue li figli di Latona, quant' è dal punto che 'l cenìt inlibra tanto, col volto di riso dipinto, Poi cominciò: «Io dico, e non dimando, Non per aver a sé di bene acquisto, in sua etternità di tempo fore, Né prima quasi torpente si giacque; Forma e materia, congiunte e purette, E come in vetro, in ambra o in cristallo così 'l triforme effetto del suo sire Concreato fu ordine e costrutto pura potenza tenne la parte ima; Ieronimo vi scrisse lungo tratto ma questo vero è scritto in molti lati e anche la ragione il vede alquanto, Or sai tu dove e quando questi amori Né giugneriesi, numerando, al venti L'altra rimase, e cominciò quest' arte Principio del cader fu il maladetto Quelli che vedi qui furon modesti per che le viste lor furo essaltate e non voglio che dubbi, ma sia certo, Omai dintorno a questo consistorio Ma perché 'n terra per le vostre scole ancor dirò, perché tu veggi pura Queste sustanze, poi che fur gioconde però non hanno vedere interciso sì che là giù, non dormendo, si sogna, Voi non andate giù per un sentiero E ancor questo qua sù si comporta Non vi si pensa quanto sangue costa Per apparer ciascun s'ingegna e face Un dice che la luna si ritorse e mente, ché la luce si nascose Non ha Fiorenza tanti Lapi e Bindi sì che le pecorelle, che non sanno, Non disse Cristo al suo primo convento: e quel tanto sonò ne le sue guance, Ora si va con motti e con iscede Ma tale uccel nel becchetto s'annida, per cui tanta stoltezza in terra crebbe, Di questo ingrassa il porco sant' Antonio, Ma perché siam digressi assai, ritorci Questa natura sì oltre s'ingrada e se tu guardi quel che si revela La prima luce, che tutta la raia, Onde, però che a l'atto che concepe Vedi l'eccelso omai e la larghezza uno manendo in sé come davanti». Paradiso: Canto XXX (indice)[Canto XXX, ove narra come l'auttore vidde per conducimento di Beatrice li splendori de la divinità e le seggie de l'anime de li uomini, tra le quali vide già collocata quella de lo imperadore Arrigo di Lunzimborgo con la sua corona.] Forse semilia miglia di lontano quando 'l mezzo del cielo, a noi profondo, e come vien la chiarissima ancella Non altrimenti il trïunfo che lude a poco a poco al mio veder si stinse: Se quanto infino a qui di lei si dice La bellezza ch'io vidi si trasmoda Da questo passo vinto mi concedo ché, come sole in viso che più trema, Dal primo giorno ch'i' vidi il suo viso ma or convien che mio seguir desista Cotal qual io la lascio a maggior bando con atto e voce di spedito duce luce intellettüal, piena d'amore; Qui vederai l'una e l'altra milizia Come sùbito lampo che discetti così mi circunfulse luce viva, «Sempre l'amor che queta questo cielo Non fur più tosto dentro a me venute e di novella vista mi raccesi e vidi lume in forma di rivera Di tal fiumana uscian faville vive, poi, come inebrïate da li odori, «L'alto disio che mo t'infiamma e urge, ma di quest' acqua convien che tu bei Anche soggiunse: «Il fiume e li topazi Non che da sé sian queste cose acerbe; Non è fantin che sì sùbito rua come fec' io, per far migliori spegli e sì come di lei bevve la gronda Poi, come gente stata sotto larve, così mi si cambiaro in maggior feste O isplendor di Dio, per cu' io vidi Lume è là sù che visibile face E' si distende in circular figura, Fassi di raggio tutta sua parvenza E come clivo in acqua di suo imo sì, soprastando al lume intorno intorno, E se l'infimo grado in sé raccoglie La vista mia ne l'ampio e ne l'altezza Presso e lontano, lì, né pon né leva: Nel giallo de la rosa sempiterna, qual è colui che tace e dicer vole, Vedi nostra città quant' ella gira; E 'n quel gran seggio a che tu li occhi tieni sederà l'alma, che fia giù agosta, La cieca cupidigia che v'ammalia E fia prefetto nel foro divino Ma poco poi sarà da Dio sofferto e farà quel d'Alagna intrar più giuso». Paradiso: Canto XXXI (indice)[Canto XXXI, il quale tratta come l'auttore fue lasciato da Beatrice e trovò Santo Bernardo, per lo cui conducimento rivide Beatrice ne la sua gloria; poi pone una orazione che Dante fece a Beatrice che pregasse per lui lo nostro Segnore Iddio e la nostra Donna sua Madre; e come vide la Divina Maestà.] In forma dunque di candida rosa ma l'altra, che volando vede e canta sì come schiera d'ape che s'infiora nel gran fior discendeva che s'addorna Le facce tutte avean di fiamma viva Quando scendean nel fior, di banco in banco Né l'interporsi tra 'l disopra e 'l fiore ché la luce divina è penetrante Questo sicuro e gaudïoso regno, Oh trina luce che 'n unica stella Se i barbari, venendo da tal plaga veggendo Roma e l'ardüa sua opra, ïo, che al divino da l'umano, di che stupor dovea esser compiuto! E quasi peregrin che si ricrea su per la viva luce passeggiando, Vedëa visi a carità süadi, La forma general di paradiso e volgeami con voglia rïaccesa Uno intendëa, e altro mi rispuose: Diffuso era per li occhi e per le gene E «Ov' è ella?», sùbito diss' io. e se riguardi sù nel terzo giro Sanza risponder, li occhi sù levai, Da quella regïon che più sù tona quanto lì da Beatrice la mia vista; «O donna in cui la mia speranza vige, di tante cose quant' i' ho vedute, Tu m'hai di servo tratto a libertate La tua magnificenza in me custodi, Così orai; e quella, sì lontana E 'l santo sene: «Acciò che tu assommi vola con li occhi per questo giardino; E la regina del cielo, ond' ïo ardo Qual è colui che forse di Croazia ma dice nel pensier, fin che si mostra: tal era io mirando la vivace «Figliuol di grazia, quest' esser giocondo», ma guarda i cerchi infino al più remoto, Io levai li occhi; e come da mattina così, quasi di valle andando a monte E come quivi ove s'aspetta il temo così quella pacifica oriafiamma e a quel mezzo, con le penne sparte, Vidi a lor giochi quivi e a lor canti e s'io avessi in dir tanta divizia Bernardo, come vide li occhi miei che ' miei di rimirar fé più ardenti. Paradiso: Canto XXXII (indice)[Canto XXXII, ove tratta come santo Bernardo mostrò a Dante ordinatamente li luoghi de' beati del Vecchio e del Nuovo Testamento; e come a la voce de l'Arcangelo Gabriello laudavano nostra Madonna, cioè la Virgine Maria.] Affetto al suo piacer, quel contemplante «La piaga che Maria richiuse e unse, Ne l'ordine che fanno i terzi sedi, Sarra e Rebecca, Iudìt e colei puoi tu veder così di soglia in soglia E dal settimo grado in giù, sì come perché, secondo lo sguardo che fée Da questa parte onde 'l fiore è maturo da l'altra parte onde sono intercisi E come quinci il glorïoso scanno così di contra quel del gran Giovanni, e sotto lui così cerner sortiro Or mira l'alto proveder divino: E sappi che dal grado in giù che fiede ma per l'altrui, con certe condizioni: Ben te ne puoi accorger per li volti Or dubbi tu e dubitando sili; Dentro a l'ampiezza di questo reame ché per etterna legge è stabilito e però questa festinata gente Lo rege per cui questo regno pausa le menti tutte nel suo lieto aspetto E ciò espresso e chiaro vi si nota Però, secondo il color d'i capelli, Dunque, sanza mercé di lor costume, Bastavasi ne' secoli recenti poi che le prime etadi fuor compiute, ma poi che 'l tempo de la grazia venne, Riguarda omai ne la faccia che a Cristo Io vidi sopra lei tanta allegrezza che quantunque io avea visto davante, e quello amor che primo lì discese, Rispuose a la divina cantilena «O santo padre, che per me comporte qual è quell' angel che con tanto gioco Così ricorsi ancora a la dottrina Ed elli a me: «Baldezza e leggiadria perch' elli è quelli che portò la palma Ma vieni omai con li occhi sì com' io Quei due che seggon là sù più felici colui che da sinistra le s'aggiusta dal destro vedi quel padre vetusto E quei che vide tutti i tempi gravi, siede lungh' esso, e lungo l'altro posa Di contr' a Pietro vedi sedere Anna, e contro al maggior padre di famiglia Ma perché 'l tempo fugge che t'assonna, e drizzeremo li occhi al primo amore, Veramente, ne forse tu t'arretri grazia da quella che puote aiutarti; E cominciò questa santa orazione: Paradiso: Canto XXXIII (indice)[Canto XXXIII, il quale è l'ultimo de la terza cantica e ultima; nel quale canto santo Bernardo in figura de l'auttore fa una orazione a la Vergine Maria, pregandola che sé e la Divina Maestade si lasci vedere visibilemente.] «Vergine Madre, figlia del tuo figlio, tu se' colei che l'umana natura Nel ventre tuo si raccese l'amore, Qui se' a noi meridïana face Donna, se' tanto grande e tanto vali, La tua benignità non pur soccorre In te misericordia, in te pietate, Or questi, che da l'infima lacuna supplica a te, per grazia, di virtute E io, che mai per mio veder non arsi perché tu ogne nube li disleghi Ancor ti priego, regina, che puoi Vinca tua guardia i movimenti umani: Li occhi da Dio diletti e venerati, indi a l'etterno lume s'addrizzaro, E io ch'al fine di tutt' i disii Bernardo m'accennava, e sorridea, ché la mia vista, venendo sincera, Da quinci innanzi il mio veder fu maggio Qual è colüi che sognando vede, cotal son io, ché quasi tutta cessa Così la neve al sol si disigilla; O somma luce che tanto ti levi e fa la lingua mia tanto possente, ché, per tornare alquanto a mia memoria Io credo, per l'acume ch'io soffersi E' mi ricorda ch'io fui più ardito Oh abbondante grazia ond' io presunsi Nel suo profondo vidi che s'interna, sustanze e accidenti e lor costume La forma universal di questo nodo Un punto solo m'è maggior letargo Così la mente mia, tutta sospesa, A quella luce cotal si diventa, però che 'l ben, ch'è del volere obietto, Omai sarà più corta mia favella, Non perché più ch'un semplice sembiante ma per la vista che s'avvalorava Ne la profonda e chiara sussistenza e l'un da l'altro come iri da iri Oh quanto è corto il dire e come fioco O luce etterna che sola in te sidi, Quella circulazion che sì concetta dentro da sé, del suo colore stesso, Qual è 'l geomètra che tutto s'affige tal era io a quella vista nova: ma non eran da ciò le proprie penne: A l'alta fantasia qui mancò possa; l'amor che move il sole e l'altre stelle. [Explicit Liber Comedie |
Bibliografia relativistica
Trasformazione di Lorentz
- http://en.wikipedia.org/wiki/Lorentz_transformation
- http://it.wikipedia.org/wiki/Portale:Relativit%C3%A0
Cose mie in rete
- http://www.elegio.it/mc2/ : indice globale...
- Mio modo di fare le trasformazioni di Lorentz NON in funzione delle velocità convenzionale ( che NON è un vettore ) ma in funzione della quadrivelocità dell'osservatore. http://www.elegio.it/mc2/lorentz-2010.html
- http://www.elegio.it/mc2/formule-varie-calcolo-tensoriale.html
- Il buco nero nella forma più generale... Quello di Kerr Newman Schild
http://www.elegio.it/mc2/kerr-newman-schild-1.html- Il buco nero carico ma NON ruotante. Metrica di Reissner-Nordström
http://www.elegio.it/mc2/doc/metrica-reissner-nordstrom.html- Versione 2009...
http://www.elegio.it/mc2/Ricci-Riemann.html
Giampaolo Bottoni
gpbottoni@gmail.com
http://www.alumni.polimi.it/it/Wall
( ing. nucleare 1972 )